L'hard discount europeo sul modello Wal Mart: prezzi stracciati alle spese dei dipendentiOttanta ore a settimana in filiale, compresi i sabati e le domeniche. Lo scarico dei bancali, le pulizie, i turni iper-flessibili. Capi e cassiere spremuti al massimo, e i prezzi vanno giù. Il sindacato europeo e il blog di Beppe Grillo
Antonio Sciotto
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
19 settembre 2006
«Non cuciamo i palloni e siamo tutti maggiorenni, ma sopportiamo soprusi e condizioni di lavoro non certo degne di un paese che ha la pretesa di far parte dell'Unione europea: il monte ore mensile, 16 ore al giorno per 28 giorni, è di 448 ore, per una base oraria di 3,48 euro». Sì, proprio 16 ore di lavoro al giorno: si conclude così la lettera di Emanuele D, un giovane quadro della Lidl, pubblicata nel luglio scorso sul blog di Beppe Grillo ( beppegrillo.it) e che ha avuto una straordinaria «fortuna». Ben 2907 risposte alla data di ieri: tantissimi colleghi della Lidl, delle grandi catene di distribuzione e non solo, che condividono la stessa condizione di super-lavoro e precarietà. L' hard discountgenere Wal Mart - prezzi stracciati e lavoro ai ritmi della schiavitù - ha ormai un solidissimo esponente europeo: si chiama Lidl, è figlio di una potente famiglia del land tedesco del Baden Wuettenberg, gli Schwarz, e si è diffuso a macchia d'olio in venti paesi europei. Tanto che, allo stato attuale, il colosso dei supermercati low costconta 100 mila dipendenti e 6 mila punti vendita nel continente, dal Portogallo alla Polonia, dalla Finlandia all'Italia. Alla cassa stanno soprattutto le donne - con contratti part time e una retribuzione media mensile di 600 euro al mese. Per i posti di comando, i quadri e i dirigenti, la Lidl seleziona principalmente uomini, perlopiù laureati, che attraverso un durissimo training di 10 mesi vengono portati ad accettare la «filosofia del terrore»: il sottoposto lavora solo se lo maltratti, devi assicurarti che non rubi, e se protesta o si iscrive al sindacato devi fare di tutto per metterlo fuori.Sarebbe però erroneo descrivere i quadri come «privilegiati»: è vero che guadagnano dai 1300 euro in su e hanno l'auto aziendale, ma sono proprio loro a essere «triturati» per primi dal sistema Lidl. Lavorano il doppio delle ore da contratto (70-80 ore settimanali, senza percepire per questo un doppio salario), sono costretti a scaricare i camion, fare le pulizie e sostituire le cassiere quando manca il personale. Contro gli abusi del «sistema Lidl», ormai collaudato e uniforme in tutta Europa, si è attivato il sindacato tedesco Ver.di, lanciando la «campagna internazionale Lidl». Nel 2004 è stato pubblicato il primo «Libro nero», con le storie dei lavoratori tedeschi. Quest'anno è uscito il «Libro nero europeo», con le vicende dei 20 paesi in cui l' hard discountsi è diffuso, Italia compresa. Il manifestosi è recato a Berlino per raccontare la campagna Lidl, e nei prossimi numeri di questa inchiesta-reportage riferiremo dei lavoratori europei e della strategia sindacale dei Ver.di. Per questa prima puntata, abbiamo scelto di dialogare con i quadri e le cassiere italiane.«Mangio, dormo o mi lavo?»Prima di entrare in una filiale della Lidl, e parlare con i lavoratori, dobbiamo riferire dei recenti controlli avviati dall'ispettorato del lavoro su alcuni punti vendita: in particolare, gli ispettori si sono recati negli hard discountdell'area Piemonte-Liguria, dove hanno riscontrato - per quel che ci è dato sapere da alcune testimonianze dei lavoratori - irregolarità sulle liste presenza. Un punto non affatto secondario o di rilevanza solo formale: la Lidl, infatti, risparmia proprio sulla «presenza» dei lavoratori nei punti vendita. Nel senso che li mantiene quasi sempre sotto organico, obbligando i dipendenti di livello più alto e i quadri intermedi (capifiliale e capisettore) a lavorare molte più ore di quelle retribuite. Anche sulle cassiere si registrano casi di straordinari non retribuiti, ma i loro orari sono in genere più rigidi e gli abusi non sono abnormi come nel caso dei superiori. Piuttosto, le addette alla cassa subiscono un altro tipo di sopruso: i turni, che per il contratto del commercio dovrebbero essere fissi, vengono cambiati ogni due settimane o addirittura una; spesso anche di giorno in giorno. Così non puoi mai organizzarti la vita fuori dal negozio, né trovarti una seconda occupazione, devi essere sempre a disposizione: una sorta di «lavoro a chiamata».La prima testimonianza ci viene da uno dei gradini più alti nella piramide Lidl, un quadro. Usiamo un nome di fantasia, Luca, per tutelarlo: ha lavorato 18 mesi per la Lidl, è stato licenziato e adesso è in causa per il reintegro. E' entrato nel gennaio 2005 come «caposettore» dopo una serie di colloqui, per occuparsi di 4 filiali nell'area torinese (ma a un certo punto ne ha avute anche 7 da seguire). Il suo ruolo avrebbe dovuto consistere nell'organizzare e monitorare il lavoro in tutte le filiali: «Al colloquio mi hanno detto che avrei lavorato 38 ore a settimana, ovvero il full timedel contratto commercio. Ma subito misero le mani avanti: per il tuo ruolo di responsabilità - dissero - ti chiediamo comunque una "certa elasticità"». Mai Luca avrebbe potuto immaginare che quella «certa elasticità» si sarebbe trasformata in una totale dedizione (fisica e mentale) alla Lidl: orario di lavoro ininterrotto dalle 6,30 del mattino alle 22,30. Quasi sempre dal lunedì al sabato (invece dei cinque giorni da contratto), spesso anche la domenica, giornata dedicata all'inventario. Certo, lo stipendio è di 29 mila euro lordi l'anno, c'è l'auto aziendale, ma cosa te ne fai di un salario decente se non hai tempo per te stesso? E le mansioni? Fare tutto: dallo scaricare pesanti cassoni all'allestimento del banco frutta, dalle pulizie alla sostituzione cassa quando la cassiera finisce il turno. Moltiplicato per 4-5 locali, spesso distanti centinaia di chilometri l'uno dall'altro. Per i primi 6 mesi, in formazione, Luca viene affiancato a diversi capifiliale. «Lavoravano tutti molte più ore di quelle da contratto - racconta - ma nessuno aveva il coraggio di protestare».Così Luca continua a lavorare circa 16 ore al giorno, spesso senza avere il tempo neppure di mangiare un panino: nei primi tre mesi perde 5 chili, vede 20 capisettore dimettersi «per disperazione». Le domeniche erano quasi sempre regalate all'azienda, tanto che una volta si è trovato a fare 20 giorni consecutivi senza uno di riposo. Spesso veniva svegliato dai capi nel cuore della notte, per improvvise assenze di capifiliale: da Genova doveva così spostarsi a Torino, fare lì l'intera giornata di lavoro, e tornare poi in nottata a Genova, per riprendere l'indomani all'alba. «Arrivato in albergo, ogni sera, mi dicevo: mangio, dormo o mi lavo?». Questi ritmi disumani non figurano affatto sulle liste presenze: i capisettore segnano la «p» di presenza per commesse e capifiliale (loro sottoposti), senza indicare le ore lavorate. Per i capisettore, come Luca, la lista presenze è in mano ai capiarea (superiori con circa una quarantina di negozi), e lui afferma di non averla mai controfirmata. Una notte Luca finisce al pronto soccorso, per il forte stress: gli consigliano di fermarsi perché quei ritmi (e ha solo 28 anni) possono avere serie conseguenze sulla sua salute. Non si ferma, ma sarà la Lidl a liberarsi di lui: per una risposta ritenuta «di insubordinazione» a un capoarea, riceverà di lì a poco la lettera di licenziamento.Impari tutto al master LidlI ritmi disumani di lavoro, e il licenziamento finale, sono capitoli comuni alla storia di Emanuele D., l'ex caposettore Lidl che ha dato origine al blog di Grillo. C'è però una differenza di rilievo: la sua formazione, più recente, è avvenuta a Verona, dove i quadri e dirigenti Lidl frequentano un apposito master: «Lì - spiega Emanuele - ti fanno un lavaggio del cervello: ti spiegano che devi essere spietato con gli addetti vendita e le cassiere, e per tutto il corso della formazione in campo i superiori ti insultano e ti maltrattano, rimproverandoti continuamente per i risultati che non hai ottenuto. Il messaggio è semplice: ti tratto così, poi tu farai lo stesso con i sottoposti». I ritmi di lavoro vengono misurati con delle vere e proprie tabelle di produttività, dividendo il fatturato per le ore lavorate: chi si trova sotto i livelli minimi, deve prepararsi a un fuoco di fila di rimproveri e minacce. «Accade anche per le cassiere - spiega Felicita Magone, addetta vendita ad Albenga e delegata Cgil - Si divide l'incasso per le ore lavorate. Oltre a essere sempre sotto pressione, non possiamo programmarci la vita, o cercare un altro lavoro per integrare uno stipendio che si aggira sui 600 euro: l'orario ci viene comunicato ogni due settimane, e cambia sempre. In molte filiali gli orari cambiano ogni settimana». Le donne sono penalizzate: pochissime arrivano a diventare capofiliali, restano perlopiù al livello di cassiera. «Un capoaerea giustificò questa differenza di genere spiegando che "per una donna è complicato essere già pronta e truccata alle 6,30, quando deve aprire una filiale"», conclude Felicita.Walter Canta, capofiliale veneto, come Luca ha fatto una bella «cura dimagrante» stile Lidl: in soli dieci mesi di lavoro ha perso ben 8 chili, passando da 66 a 58 chili di peso. Walter racconta più da vicino il lavoro del negozio, perché il capofiliale ha la responsabilità di un solo punto vendita. Anche lui ha fatto 80 ore in media a settimana, sabati e domeniche inclusi, con lo «straordinario» tutto compreso nei cento euro lordi di «superminimo» erogati ogni mese. Ha lasciato perché ha contratto un'infiammazione alle spalle, a causa della «sbancalatura»: lo scarico, a partire dall'alba, di cassoni pesanti dai 10 ai 20 chili. E' un lavoro quotidiano che tocca a tutti i capifiliale e assistenti, così come le infiammazioni alle spalle, molto diffuse. «Per pranzo avevo a stento il tempo di mangiare un cracker, prendendolo dalla tasca, mentre scaricavo - racconta - Contavano le volte che andavo in bagno, ma nessuno protestava: se sbagli ti insultano violentemente». «Non è stato facile lasciare un posto a tempo indeterminato - conclude - oggi 1300 euro al mese assicurati sono una chimera. Ma tra l'infiammazione alla spalla, lo stress e il clima da terrore non ho retto più».
29 settembre 2006
14 settembre 2006
Se gli insegnanti vi sembran troppi
Alcuni giorni fa è venuta trovarmi a Roma la mia amica Mariangela che da molti anni insegna nelle scuole italiane all’estero, ha passato cinque anni in Inghilterra e da due anni lavora a Manchester a stretto contato con le scuole inglesi. E’ stata l’occasione per ricordare i vecchi tempi del lavoro sindacale fatto insieme a Milano. Ma tra ricordi, nostalgie e polemiche (che tra due buoni amici di sinistra non mancano mai!) c’è stato anche il tempo per parlare di scuola inglese.
A questo proposito, tra le altre cose che non mancherò di raccontare in un altro momento, mi ha colpito il fatto che nelle scuole elementari di Manchester l’insegnante, che lì è unico, lavori dalle 9 alle 15 con un orario che prevede un quarto d’ora d’interruzione corrispondente alla ricreazione dei bimbi e un’ora di intervallo mensa in cui l’insegnante non segue gli alunni ma si fa gli affari suoi. Nell’insieme 4 ore e tre quarti di insegnamento frontale per cinque giorni alla settimana, poco più delle 4 ore e 24 minuti medie di un maestro nostrano impegnato su un orario di 5 giorni alla settimana. Ho chiesto allora chi vigilasse sui ragazzi durante la mensa e la ricreazione. Mi sono sentito rispondere che esistono tre o quattro persone fornite dal comune che svolgono questo compito. E che esiste anche per ogni classe un assistente, una specie di factotum, sempre pagato dal comune e prevalentemente non qualificato dal punto di vista pedagogico, che passa tutta la mattina con l’insegnante e gli alunni svolgendo compiti di sorveglianza, di approntamento dei sussidi didattici, delle fotocopie o quant’altro, di cura dei ragazzi svantaggiati e, in caso di necessità, di sorveglianza della classe.
Cito questo fatto perché, come periodicamente succede, in questi giorni siamo bersagliati da un ritornello che dice: gli insegnanti sono troppi, per questo la scuola costa molto e gli insegnanti sono pagati poco. E qui via sciorinare i dati: in Italia un insegnante ogni 10 alunni, in quest’altro paese invece uno ogni 12, uno ogni 14, uno ogni 16 ecc.
Già! Ma mi chiedo nel caso dell’Inghilterra, che abbiamo appena visto coloro che curano i ragazzi a mensa o che fanno gli assistenti in classe entrano nel conto? Ne dubito! Anzi, nel caso specifico sono sicuro di no, trattandosi di personale non qualificato per insegnare. E non entrano neppure nella contabilità del Ministero dell’Educazione trattandosi di dipendenti comunali.
Così come dipendono dai comuni gli amministrativi e i bidelli, i quali , contrariamente a una leggenda metropolitana che li voleva una peculiarità solo italiana, esistono in tutto il mondo, solo che raramente dipendono dalla stessa amministrazione che gestisce il personale docente e fanno parte degli stessi sindacati di categoria dei docenti.
Ma che siano dipendenti di qua o di là, docenti o ata che siano, i loro stipendi sono comunque un carico per la collettività e la pretesa dei rigoristi nostrani che urlano alla troppa spesa per la scuola si riduce in realtà ad una semplice differenza di voci di spesa e di capitoli di uscita nei bilanci statali, non ad una reale riduzione della spesa pubblica e del personale, dal momento che, anche se magari un assistente costa meno di un insegnante, gli stipendi degli insegnanti sono notevolmente più alti..
Qualcuno potrebbe pensare che il caso inglese costituisca un’eccezione. E invece no. In Francia succede la stessa cosa. Con una popolazione pari all’Italia e quindi una popolazione scolastica non tanto dissimile la Francia sembra avere un numero di insegnanti sensibilmente inferiore: circa 600.000 contri i nostri 800.000. Ma se si va a veder la totalità del personale impegnato nel sistema scolastico francese (università escluse) si scopre che in Francia vi lavorano circa 1.600.000 addetti contro 1.100.000 impiegati in Italia.
Come mai questa differenza? Essa è dovuta a quattro fattori.
Il primo: in Francia il sistema scolastico fa capo a tre ministeri diversi: quello dell’Educazione nazionale (che retribuisce la maggior parte dei docenti), quello della Gioventù e dello Sport (che retribuisce i docenti di educazione fisica) e quello dell’Agricoltura e della Pesca ( che retribuisce i docenti dei licei agricoli, il corrispettivo dei nostri Istituti Agrari).
Il secondo: a partire dal 1998 sono stati introdotti con compiti di assistentato figure a contratto quinquennale: sono giovani diplomati al primo impiego, si chiamano aiuto-educatori ( aides-educateurs), sono 70.000 e la loro assunzione è finanziata dal Ministero del Lavoro, con i fondi per il primo impiego. I loro compiti variano dalla vigilanza allo studio sussidiario, dall’animazione alla cura in mensa e, se le competenze lo consentono, dai laboratori di informatica alla sostituzione degli insegnanti assenti. Non si tratta di insegnanti, non ne hanno la qualifica e spesso neppure un diploma utile, ma ne svolgono molti compiti.
Il terzo: esistono nel settore dei licei professionali una serie di insegnanti a contratto, professionisti impegnati nelle materie di tecnica professionale: il loro contratto non sempre è annuale né per orari definibili di cattedra. Non vengono certo conteggiati tra i docenti stabilizzati.
Il quarto: esistono oltre al personale ata vero e proprio (bidelli, amministrativi e tecnici), figure non docenti inferiori e superiori, che potremmo definire paradocenti: i MI-SE, sorveglianti, a 36 ore settimanali, costituiti da studenti magistrali “in carriera”, addetti ad animazione e studio sussidiario; i MA, docenti ausiliari, non abilitati ma inquadrati nel sistema; i consiglieri di educazione e i consiglieri principali di educazione, sorta di vicepresidi distaccati o di coordinatori disciplinari; i Co-psy, orientatori psicopedagogici; i medici scolastici che non si limitano al pronto soccorso ma tengono i corsi di igiene. Di prevenzione sanitaria e di educazione sessuale.Tutte figure, tranne i consiglieri di educazione, che difficilmente rientrano nel computo del personale docente vero e proprio.
Insomma se si va guardare nelle cuciture della scuola internazionale ( qui ci limitiamo a quella europea) scopriamo che differenziando le figure si possono alterare anche dei conti, nascondere delle voci, ma, a meno che non si vogliano tagliare drasticamente i servizi, alla fine i conti pubblici debbono poi tornare o sotto al forma di spese del ministero dell’istruzione o sotto quella di altri ministeri o sotto quella del finanziamento degli enti locali, per non dire persino dei finanziamenti alle aziende.
A questo proposito è illuminante l’esempio della Germania. Qui operano nel settore dell’educazione duale circa 700.000 tutor aziendali accreditati con appositi esami di “mastro operaio” che curano gli apprendisti che a loro volta apprendono nell’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di 700.000 persone pagate dalle aziende e che probabilmente ricevono un’indennità o un incentivo per il ruolo che svolgono verso questi ragazzi, ma per il quale le aziende stesse ricevono dallo Stato finanziamenti pubblici. Non si vuole qui entrare nel merito dell’efficacia del metodo, questione che da sola potrebbe essere oggetto di ampie dissertazioni, ma non si vorrà far credere che lo stato tedesco sborsi in indennità per 700.000 (settecentomila!) persone meno di quanto sborsi il nostro ministero per gli stipendi di 24.000 (ventiquattromila!) insegnanti tecnico pratici che operano nei laboratori delle scuole italiane più o meno con lo stesso obiettivo di insegnare ai ragazzi a manovrare una macchina utensile o a costruire un impianto?
Naturalmente si potrebbe continuare citando altre decine di casi. Sempre per rimanere nell’Unione Europea: il mediatore che lavora a combattere dispersione e insuccesso scolastico tra i figli degli immigrati nelle scuole del Belgio francofono, o il supporto libero del Belgio fiammingo, il Lehrer fur sonderpaedagogisce Lehramter tedesco, simile al nostro insegnante di sostegno, o il Didaskalos Idikis Agogis greco che lavora sui casi problematici, o il Profesor de Apoyo spagnolo, che come i nostri “sostegnisti” spesso denuncia di non essere usato per i portatori di handicap ma per supplire i colleghi assenti, o gli Special Needs Assistants della scuola irlandese, o i vari Sonderschullehrer, Begleitlehrer, Lehrer fur muttersprachlichen Unterricht austriaci, o il Profesor de Apoio Educativo portoghese, assistenti non “sostegnisti” stavolta, o i finlandesi Eritysluokanopettaja, Erityispettaja, Koulunkavatiayustaja troppo difficili da scriversi per chiedersi anche cosa facciano, o lo Specialpedagog svedese o gli Asistent Ucitela cechi e slovacchi e gli ungheresi Gyogipedagogus, Szocialpedagogus e Konduktor, o gli Eripedagogoog estoni, gli Specialusis Pedagogas lituani, o i Facilitatori. maltesi. Chissà quanti di questi soggetti che operano nella scuola in funzioni docenti, paradocenti o altro vengono calcolati quando si fanno i conti sul corpo docente.
Noi italiani abbiamo fatto una scelta diversa negli anni del nostro boom scolastico: quello di caricare pressoché tutte le spese allo Stato e tutti i compiti alla figura docente, da quelli più umili come vigilare in mensa a quelli più difficili come sostenere in classe i portatori di handicap. Anche noi avevamo le assistenti nella scuola materna ad esempio o le insegnanti comunali di doposcuola, ma li abbiamo riassorbiti le prime, prevalentemente diplomate, tra le insegnanti, mentre i doposcuola comunali sono stati a poco a poco sostituiti da quelli statali. E abbiamo un sistema di integrazione generalizzato che occupa quasi 100.000 insegnanti di sostegno.
E’ stato forse uno sbaglio fare “todos caballeros”?
Se ne potrebbe anche discutere da un punto di vista pedagogico o gestionale, ma non certo da un punto di vista contabile. Tanto più che nello stesso momento in cui si dicono queste cose si tagliano i fondi agli enti locali che eventualmente dovrebbero subentrare in questi servizi che, fatti dall’uno o dall’altro, sono indispensabili. Come si faccia poi a legare a ciò anche eventuali stipendi migliori per i docenti rimasti andrebbe spiegato: o si incentiva un cannibalismo tra docenti di serie A e docente di serie B o si pensa che a livello decentrato esistano trucchi migliori per falsare i bilanci o per imbrogliare i lavoratori.
In verità alcuni fatti ci dimostrano che l’alternativa si gioca tra la perdita di un servizio o la sua qualificazione insieme alla negazione dei diritti di chi vi lavora. In Francia lo scorso anno il governo Raffarin decise di dare un taglio alle spese per la scuola. Ci fu una levata di scudi degli insegnanti e dei loro sindacati. Non taglieremo i docenti, disse Raffarin, taglieremo gli aiuto-educatori e i sorveglianti. Ma il servizio scolastico non funzionerà, ribatterono le famiglie. Ci metteremo ex-insegnanti già in pensione e casalinghe senza figli, che costano meno e magari a casa si annoiano pure, fu la risposta.
E’ dunque fuori luogo il timore che esprimono i nostri maestri elementari quando si comincia distinguerli in maestri tutor e maestri coadiutori (aides-educateurs?)? E’ fuori luogo il pensare che il vero risparmio a cui si mira quando si dicono queste cose non stia solo nella riduzione degli insegnanti per pagare meglio i restanti ma nel creare le condizioni perché una parte di loro sia pagata meno, sia ricattabile e abbia meno diritti?
Pino Patroncini
A questo proposito, tra le altre cose che non mancherò di raccontare in un altro momento, mi ha colpito il fatto che nelle scuole elementari di Manchester l’insegnante, che lì è unico, lavori dalle 9 alle 15 con un orario che prevede un quarto d’ora d’interruzione corrispondente alla ricreazione dei bimbi e un’ora di intervallo mensa in cui l’insegnante non segue gli alunni ma si fa gli affari suoi. Nell’insieme 4 ore e tre quarti di insegnamento frontale per cinque giorni alla settimana, poco più delle 4 ore e 24 minuti medie di un maestro nostrano impegnato su un orario di 5 giorni alla settimana. Ho chiesto allora chi vigilasse sui ragazzi durante la mensa e la ricreazione. Mi sono sentito rispondere che esistono tre o quattro persone fornite dal comune che svolgono questo compito. E che esiste anche per ogni classe un assistente, una specie di factotum, sempre pagato dal comune e prevalentemente non qualificato dal punto di vista pedagogico, che passa tutta la mattina con l’insegnante e gli alunni svolgendo compiti di sorveglianza, di approntamento dei sussidi didattici, delle fotocopie o quant’altro, di cura dei ragazzi svantaggiati e, in caso di necessità, di sorveglianza della classe.
Cito questo fatto perché, come periodicamente succede, in questi giorni siamo bersagliati da un ritornello che dice: gli insegnanti sono troppi, per questo la scuola costa molto e gli insegnanti sono pagati poco. E qui via sciorinare i dati: in Italia un insegnante ogni 10 alunni, in quest’altro paese invece uno ogni 12, uno ogni 14, uno ogni 16 ecc.
Già! Ma mi chiedo nel caso dell’Inghilterra, che abbiamo appena visto coloro che curano i ragazzi a mensa o che fanno gli assistenti in classe entrano nel conto? Ne dubito! Anzi, nel caso specifico sono sicuro di no, trattandosi di personale non qualificato per insegnare. E non entrano neppure nella contabilità del Ministero dell’Educazione trattandosi di dipendenti comunali.
Così come dipendono dai comuni gli amministrativi e i bidelli, i quali , contrariamente a una leggenda metropolitana che li voleva una peculiarità solo italiana, esistono in tutto il mondo, solo che raramente dipendono dalla stessa amministrazione che gestisce il personale docente e fanno parte degli stessi sindacati di categoria dei docenti.
Ma che siano dipendenti di qua o di là, docenti o ata che siano, i loro stipendi sono comunque un carico per la collettività e la pretesa dei rigoristi nostrani che urlano alla troppa spesa per la scuola si riduce in realtà ad una semplice differenza di voci di spesa e di capitoli di uscita nei bilanci statali, non ad una reale riduzione della spesa pubblica e del personale, dal momento che, anche se magari un assistente costa meno di un insegnante, gli stipendi degli insegnanti sono notevolmente più alti..
Qualcuno potrebbe pensare che il caso inglese costituisca un’eccezione. E invece no. In Francia succede la stessa cosa. Con una popolazione pari all’Italia e quindi una popolazione scolastica non tanto dissimile la Francia sembra avere un numero di insegnanti sensibilmente inferiore: circa 600.000 contri i nostri 800.000. Ma se si va a veder la totalità del personale impegnato nel sistema scolastico francese (università escluse) si scopre che in Francia vi lavorano circa 1.600.000 addetti contro 1.100.000 impiegati in Italia.
Come mai questa differenza? Essa è dovuta a quattro fattori.
Il primo: in Francia il sistema scolastico fa capo a tre ministeri diversi: quello dell’Educazione nazionale (che retribuisce la maggior parte dei docenti), quello della Gioventù e dello Sport (che retribuisce i docenti di educazione fisica) e quello dell’Agricoltura e della Pesca ( che retribuisce i docenti dei licei agricoli, il corrispettivo dei nostri Istituti Agrari).
Il secondo: a partire dal 1998 sono stati introdotti con compiti di assistentato figure a contratto quinquennale: sono giovani diplomati al primo impiego, si chiamano aiuto-educatori ( aides-educateurs), sono 70.000 e la loro assunzione è finanziata dal Ministero del Lavoro, con i fondi per il primo impiego. I loro compiti variano dalla vigilanza allo studio sussidiario, dall’animazione alla cura in mensa e, se le competenze lo consentono, dai laboratori di informatica alla sostituzione degli insegnanti assenti. Non si tratta di insegnanti, non ne hanno la qualifica e spesso neppure un diploma utile, ma ne svolgono molti compiti.
Il terzo: esistono nel settore dei licei professionali una serie di insegnanti a contratto, professionisti impegnati nelle materie di tecnica professionale: il loro contratto non sempre è annuale né per orari definibili di cattedra. Non vengono certo conteggiati tra i docenti stabilizzati.
Il quarto: esistono oltre al personale ata vero e proprio (bidelli, amministrativi e tecnici), figure non docenti inferiori e superiori, che potremmo definire paradocenti: i MI-SE, sorveglianti, a 36 ore settimanali, costituiti da studenti magistrali “in carriera”, addetti ad animazione e studio sussidiario; i MA, docenti ausiliari, non abilitati ma inquadrati nel sistema; i consiglieri di educazione e i consiglieri principali di educazione, sorta di vicepresidi distaccati o di coordinatori disciplinari; i Co-psy, orientatori psicopedagogici; i medici scolastici che non si limitano al pronto soccorso ma tengono i corsi di igiene. Di prevenzione sanitaria e di educazione sessuale.Tutte figure, tranne i consiglieri di educazione, che difficilmente rientrano nel computo del personale docente vero e proprio.
Insomma se si va guardare nelle cuciture della scuola internazionale ( qui ci limitiamo a quella europea) scopriamo che differenziando le figure si possono alterare anche dei conti, nascondere delle voci, ma, a meno che non si vogliano tagliare drasticamente i servizi, alla fine i conti pubblici debbono poi tornare o sotto al forma di spese del ministero dell’istruzione o sotto quella di altri ministeri o sotto quella del finanziamento degli enti locali, per non dire persino dei finanziamenti alle aziende.
A questo proposito è illuminante l’esempio della Germania. Qui operano nel settore dell’educazione duale circa 700.000 tutor aziendali accreditati con appositi esami di “mastro operaio” che curano gli apprendisti che a loro volta apprendono nell’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di 700.000 persone pagate dalle aziende e che probabilmente ricevono un’indennità o un incentivo per il ruolo che svolgono verso questi ragazzi, ma per il quale le aziende stesse ricevono dallo Stato finanziamenti pubblici. Non si vuole qui entrare nel merito dell’efficacia del metodo, questione che da sola potrebbe essere oggetto di ampie dissertazioni, ma non si vorrà far credere che lo stato tedesco sborsi in indennità per 700.000 (settecentomila!) persone meno di quanto sborsi il nostro ministero per gli stipendi di 24.000 (ventiquattromila!) insegnanti tecnico pratici che operano nei laboratori delle scuole italiane più o meno con lo stesso obiettivo di insegnare ai ragazzi a manovrare una macchina utensile o a costruire un impianto?
Naturalmente si potrebbe continuare citando altre decine di casi. Sempre per rimanere nell’Unione Europea: il mediatore che lavora a combattere dispersione e insuccesso scolastico tra i figli degli immigrati nelle scuole del Belgio francofono, o il supporto libero del Belgio fiammingo, il Lehrer fur sonderpaedagogisce Lehramter tedesco, simile al nostro insegnante di sostegno, o il Didaskalos Idikis Agogis greco che lavora sui casi problematici, o il Profesor de Apoyo spagnolo, che come i nostri “sostegnisti” spesso denuncia di non essere usato per i portatori di handicap ma per supplire i colleghi assenti, o gli Special Needs Assistants della scuola irlandese, o i vari Sonderschullehrer, Begleitlehrer, Lehrer fur muttersprachlichen Unterricht austriaci, o il Profesor de Apoio Educativo portoghese, assistenti non “sostegnisti” stavolta, o i finlandesi Eritysluokanopettaja, Erityispettaja, Koulunkavatiayustaja troppo difficili da scriversi per chiedersi anche cosa facciano, o lo Specialpedagog svedese o gli Asistent Ucitela cechi e slovacchi e gli ungheresi Gyogipedagogus, Szocialpedagogus e Konduktor, o gli Eripedagogoog estoni, gli Specialusis Pedagogas lituani, o i Facilitatori. maltesi. Chissà quanti di questi soggetti che operano nella scuola in funzioni docenti, paradocenti o altro vengono calcolati quando si fanno i conti sul corpo docente.
Noi italiani abbiamo fatto una scelta diversa negli anni del nostro boom scolastico: quello di caricare pressoché tutte le spese allo Stato e tutti i compiti alla figura docente, da quelli più umili come vigilare in mensa a quelli più difficili come sostenere in classe i portatori di handicap. Anche noi avevamo le assistenti nella scuola materna ad esempio o le insegnanti comunali di doposcuola, ma li abbiamo riassorbiti le prime, prevalentemente diplomate, tra le insegnanti, mentre i doposcuola comunali sono stati a poco a poco sostituiti da quelli statali. E abbiamo un sistema di integrazione generalizzato che occupa quasi 100.000 insegnanti di sostegno.
E’ stato forse uno sbaglio fare “todos caballeros”?
Se ne potrebbe anche discutere da un punto di vista pedagogico o gestionale, ma non certo da un punto di vista contabile. Tanto più che nello stesso momento in cui si dicono queste cose si tagliano i fondi agli enti locali che eventualmente dovrebbero subentrare in questi servizi che, fatti dall’uno o dall’altro, sono indispensabili. Come si faccia poi a legare a ciò anche eventuali stipendi migliori per i docenti rimasti andrebbe spiegato: o si incentiva un cannibalismo tra docenti di serie A e docente di serie B o si pensa che a livello decentrato esistano trucchi migliori per falsare i bilanci o per imbrogliare i lavoratori.
In verità alcuni fatti ci dimostrano che l’alternativa si gioca tra la perdita di un servizio o la sua qualificazione insieme alla negazione dei diritti di chi vi lavora. In Francia lo scorso anno il governo Raffarin decise di dare un taglio alle spese per la scuola. Ci fu una levata di scudi degli insegnanti e dei loro sindacati. Non taglieremo i docenti, disse Raffarin, taglieremo gli aiuto-educatori e i sorveglianti. Ma il servizio scolastico non funzionerà, ribatterono le famiglie. Ci metteremo ex-insegnanti già in pensione e casalinghe senza figli, che costano meno e magari a casa si annoiano pure, fu la risposta.
E’ dunque fuori luogo il timore che esprimono i nostri maestri elementari quando si comincia distinguerli in maestri tutor e maestri coadiutori (aides-educateurs?)? E’ fuori luogo il pensare che il vero risparmio a cui si mira quando si dicono queste cose non stia solo nella riduzione degli insegnanti per pagare meglio i restanti ma nel creare le condizioni perché una parte di loro sia pagata meno, sia ricattabile e abbia meno diritti?
Pino Patroncini
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