09 marzo 2006

In Banlieue con Pascal

di Judith Revel L'espresso 2 marzo 2006

Io, in banlieue, ci sono cresciuta. Ma c'è banlieue e banlieue: quella "fredda" e quella "calda", mi hanno spiegato i ragazzi ai quali insegno filosofia. La banlieue dove il ministro-sceriffo Sarkozy vive, e di cui è il sindaco: Neuilly, i suoi attori di grido, i suoi calciatori miliardari, i suoi cantanti alla moda, il suo altissimo reddito pro capite; e poi l'altra banlieue, quella dei "quartieri", delle "cités", un alternarsi di villini modesti e di enormi palazzoni anni Sessanta dove si ammucchiano migliaia di famiglie. A volte non ci sono neanche più i villini. Veramente, a volte non ci sono neanche più le panche nei giardini pubblici, che poi non sono più giardini da tempo: senza giochi per bambini, senza erba né fiori: alla fine si percepisce solo un piccolo spazio vuoto, un buco nero urbano, una dimenticanza, e quello per l'appunto si chiama giardino pubblico. A volte non ci sono le fermate degli autobus (due possibilità: qui, per evitare i "quartieri", non passano più gli autobus, oppure la segnalazione della fermata è andata distrutta), a volte mancano i cassettoni dell'immondizia, quasi sempre le cassette delle lettere negli ingressi dei palazzoni sono spaccate. E poi: ascensori che non funzionano da mesi - i palazzoni spesso superano otto piani - pareti imbrattate, cemento sgretolato, bruttura, muri talmente sottili da impedire ogni forma di privacy. Ragazzi annoiati appollaiati sui muretti. Ragazzi per le rampe delle scale, seduti sui gradini. Ragazzi nelle cantine. Le palestre sono rare. Anche i cinema, le piscine, i campi di calcio, i centri culturali. E poi costano. I centri commerciali sono gratis e sono riscaldati. Anche le scale dei palazzoni e le cantine. Allora spesso si sta lì, ad aspettare di veder passare il tempo, che passa ma non scorre, perché passa a grumi, ed è tremendamente lento.La mia banlieue di origine è un'altra: ha arie di Nuova Inghilterra, i suoi abitanti sembrano usciti da quelle foto della famiglia Kennedy che hanno consacrato il fascino dei denti bianchi e delle ragazze senza trucco, o per lo meno quello è il modello estetico riconosciuto da tutti. Tanti soldi, ma niente chiasso: la mia banlieue è bella, ricca, discreta. Ed è gelida.Compito in classe, corso di economia e scienze sociali, prima superiore. Domanda sulla nozione di reddito. Un collega mi fa leggere un compito. L'alunno ha scritto: "Ci sono i ricchi e i poveri. I ricchi sono: i bianchi, i poliziotti, gli insegnanti, e quelli che abitano in una casa". Ridiamo, ma ce lo prendiamo in faccia. Cosa scrivere a lato, "risposta insufficiente"?Le banlieues, quelle "calde", ne parlano in tanti. Quanti sono veramente andati a vedere? Forse vedere non basta. Bisogna starci. Ho ricevuto la mia nomina nell'estate 2004. Vivevo da 12 anni a Roma, insegnavo par-time in un liceo rinomato, sezione internazionale italo-francese, il resto del tempo all'università come docente a contratto. Ho i titoli per tornare in Francia e chiedere una cattedra universitaria, ma devo aspettare di passare in commissione nazionale. Un paio d'anni, forse tre, da trascorrere al liceo. A me piace insegnare. Chiedo il posto più vicino a Parigi. Mi hanno dato un liceo a otto chilometri dalla capitale, a nord. Dipartimento di Seine-Saint Denis, liceo targato "zona di educazione prioritaria", qualificato "sensibile", e come se non bastasse, "obiettivo prioritario prevenzione violenza". Ho guardato su Internet: non sembra neanche tanto brutto. Il liceo ha una trentina di anni, 1.200 alunni, insegnamento generale e tecnico. Insegnante di filosofia aggredito qualche anno prima. Vicepreside aggredito recentemente. Due bombe all'acido (lo saprò dopo: molotov all'acido muriatico) lanciate in sala dei professori. Tentativo d'incendio all'infermeria. Auguri.Vado a presentarmi. La preside mi riceve, ma se ne sta andando in provincia, sono i suoi ultimi giorni. Tre i punti del suo discorsetto di benvenuto. Uno: <<È un'esperienza pedagogica e umana formidabile, vedrà quant'è bello". Due: "Lei si chiama Judith?Meglio non dirlo, si faccia chiamare Maidame Revel". Tre: "Non parli mai di religione e andrà tutto bene". Le ricordo che il programma di filosofia, che in Francia non è cronologico ma tematico, prevede lo studio del tema della religione. Mi guarda come se fossi matta! La banlieue non è così temibile come sembra,è solo lontana. Da casa mia, nella parte sud della capitale, alla fermata di banlieue dove scendo dopo due cambi di metro, impiego mezz'ora. Sono una decina di chilometri. Dalla fermata al liceo, vado a piedi, non ci sono autobus. Impiego 15 minuti per coprire l'ultimo chilometro. Lo spazio urbano non è identico ovunque: il movimento rallenta man mano che ci si allontana dal centro di Parigi. La rete dei trasporti, fittissima nella capitale, si sparpaglia spesso nel vuoto non appena si varcano i confini delle banlieues. Dalla mia banlieue natia alla Sorbona, da ragazza, impiegavo 12 minuti in metro e tre minuti a piedi. Dal liceo dove insegno al quartiere della Sorbona, dove vivo oggi, ne impiego 45. La distanza è pressoché equivalente. Lo spazio non è uguale per tutti. Il tempo non è uguale per tutti. Nel programma di filosofia, ci sono anche i temi del tempo, del potere, della democrazia, della libertà. Mi viene da ridere. In banlieue, si ride spesso.Statisticamente, nelle mie classi, conto il 55 per cento di francesi di origine maghrebina,il 35 per cento di ragazzi di origine africana e il 1O per cento di "altri". A parte i sans papiers che, in effetti non sono francesi e avranno prima o poi problemi legali una volta maggiorenni, sono tutti "francesi". Eppure chiamano noi "francesi". Chiedo loro'perché. Non è una storia di colore, o di identità comunitaria, emica o religiosa: parte dei colleghi insegnanti sono anche loro di origine immigrata. Per i ragazzi delle banlieues, "francese" è colui che ha diritti. lo ho diritti, loro non sempre. Aver diritti significa vivere in modo dignitoso, avere un luogo di vita piacevole e pulito, un accesso all'educazione. E poi: non vivere la dove la disoccupazione supera il 40 per cento, poter viaggiare, poter imparare, poter sognare. E ancora: non stare in 12 in tre stanze in attesa di un alloggio sociale, riuscire ad avere un posto al nido per i più piccoli, non dover lavorare al nero anche da minorenni. A volte, significa semplicemente poter mangiare e dormire.Durante gli eventi dell'autunno, sono state bruciate prevalentemente scuole, macchine e autobus. Le scuole sono il simbolo di un fallimento che comincia già dall'asilo. Non che i ragazzi non siano capaci: è il sistema scolastico che non ha più i mezzi per funzionare. Produciamo esclusione e basta. Macchine e autobus invece sono mezzi di trasporto privato e pubblico: simboli di una mobilità fisica e sociale rallentata, difficile, dolorosa.L'ultima fermata parigina prima della banlieue è Gare du Nord: stazione ferroviaria, stazione di metropolitana e punto di partenza dei treni di banlieue nord. E poi: centro commerciale, dormitorio dei barboni quando fa freddo, luogo d'incontro. La mattina alle sette, quando salgo sul treno di banlieue, la popolazione è soprattutto immigrata. Arriva a Parigi quando io ne parto. La sera, loro ripartono, io torno a casa. Abbiamo orari e spostamenti opposti. E una cosa in comune: il sonno.Compito in classe, prima superiore, geografia. Domanda: Citate tre capitali. Risposta: Agadir, Marrakech, Gare du Nord.Per portare i ragazzi a teatro, al cinema o nei musei parigini, loro devono fare il biglietto per Gare du Nord, ma cambia la zona di tariffazione. Il loro abbonamento, se ce l'hanno, non basta. Costa 2 euro e 20 centesimi la sola andata. C'è chi non può pagare e non lo vuole dire, così, finisce sempre che l'uno o l'altro venga controllato e multato.Alla fine di una lezione sui temi del bene e del male, ho detro ad alcuni alunni che mi'aveva impressionato "Dogville" di Lars von Trier. Sulla fiducia (perché nessuno di loro ha mai sentito parlare di Lars Von Trier), hanno trovato il dvd. Sono rimasti sconvolti. Da allora dico loro i film che non mi voglio perdere. Si è formato un gruppetro che va al cinema, poi discutiamo. Per esempio, in quello spazio omofobico per eccellenza che è la banlieue "calda", "Il segreto di Brokeback Mountain" ha per la prima volta permesso una discussione aperta con i maschi sulla loro violenza anti-omosessuale. Valanga di domande. Discutere vuoi dire questo: aver il diritto a fare domande senza paura. Spiego loro che la filosofia è questa: formulare domande, più che dare risposte.Ormai andiamo anche al museo insieme la domenica, in orari non scolastici, "come amici", dicono loro. Da gennaio gli studenti possono entrare gratis nei musei nazionali. Si discute di tutto. Lascio a scuola i due quotidiani che compro ogni giorno, loro se li passano e li leggono. Siamo una decina di insegnanti a lavorare in quella direzione. Il mercoledì pomeriggio, prepariamo alcuni di loro - una quarantina - al difficile concorso dell'Institut d'Études Politiques (Sciences Po) che si può tentare dopo la maturità, in virtù di un programma di discriminazione positiva per i ragazzi dei licei "caldi" lanciato sette anni fa. Siamo riusciti a entrare nel protocollo sperimentale l'anno scorso: 45 ragazzi delle banlieues accedono ogni anno in quella scuola d'elite, provenienti da una ventina di licei. Prima constatazione: a me, la discriminazione positiva non piaceva, perché lavorare con 40 ragazzi quando sono in 1.200 ? Seconda constatazione: quando finalmente ce l'hannofatta in tre, a luglio scorso, a superare il concorso, ho provato gioia e mi sono rimangiata i miei scrupoli politici. Terza constatazione: i 37 nostri che non ce l'hanno fatta a superare il concorso comunque ce l'hanno fatta lo stesso; scoprono di aver diritto a desiderare. Lo so che non basta il desiderio. Ma senza desiderio, niente vale la pena. Bruciare le macchine, come a novembre scorso,vuol dire: non riesco più ad avere desiderio. Il desiderio è il quarto tema in programma nel corso di filosofia all'ultimo anno di liceo. Mai visto tanti ragazzi affascinati dagli stoici. Epitteto: "Non desiderare ciò che non dipende da te: onori, salute, ricchezza". Uno mi chiede: "Si può anche non essere d'accordo con gli stoici, vero?".Se avessimo i mezzi umani necessari (e non 35 alunni per classe), se potessimo seguire uno a uno tutti i nostri ragazzi come facciamo il mercoledì pomeriggio, tutti diventerebbero bravi. C'è una quantità d'intelligenza spaventosa in banlieue. Enorme, e lasciata marcire su se stessa, senza sbocco. Il progetto Sciences Po ne è la prova: quattro ore di mercoledì pomeriggio, quattro ore di insegnamento personalizzato e di qualità, quattro ore di fiducia progressivamente costruita e di discussione incessante, per 30 settimane di seguito, bastano a trasformare quelli che un ministro della Repubblica chiamò dei "sauvageons", e che più recentemente un altro ministro qualificò "racailles", in studenti brillanti. Quelle ore del mercoledì pomeriggio ci vengono pagare in tutto e per tutto con quattro ore di straordinario all'anno per insegnante. Ne facciamo 20 volte tanto ciascuno. Gratis. Volontariato, non carità. Questa è l'unica possibilità che noi abbiamo di dare senso al nostro lavoro. Lo facciamo per loro, ma lo facciamo anche per noi. Domanda da mille dollari: quanto costa sradicare la miseria umana e sociale attraverso l'educazione e la formazione? E invece: quanto costa, come ci viene ripetutamente proposto, assegnare un poliziotto a ogni scuola di Francia? Fino a che punto la dimissione dello Stato sarà coperta dalla buona volontà?Venti giorni dopo il mio arrivo una professoressa è stata aggredita nella sua classe. Hanno bussato alla sua porta alle nove di mattina, lei ha aperto, ha preso in faccia una bomboletta lacrimogena. Se non avesse avuto gli occhiali, avrebbe perso la vista. Andiamo in delegazione al Provveditorato. Chiediamo più mezzi umani, classi da 20 alunni, locali più dignitosi. Il rappresentante ci interrompe: con quale razzismo sociale vi permettete di trattare questi bravi ragazzi come delinquenti? Alla fine dell'incontro ci propone una telecamera di sorveglianza in più, ma ne abbiamo già tante. Il suo non è razzismo, è visione pragmatica. E noi siamo la valvola di sicurezza di una pentola a pressione che sta per esplodere e che viene pregata di non fischiare a segnalare il pericolo. Esco, mi siedo per terra e piango di rabbia e di umiliazione. Non sono più un'insegnante. Sono una di loro. Perché il loro fallimento scolastico è anche il mio, perché il disprezzo con il quale ci viene proposta una telecamera di sorveglianza, negandoci tutto il resto, risveglia in me qualcosa che assomiglia all'odio.A scuola, dopo la storia delle bombe all'acido in sala dei professori, hanno tolto tutte le maniglie esterne alle porre. Si va in giro con un mazzo di chiavi,e ci si chiude dentro le aule con i ragazzi. A Roma ho frequentato per un anno il parlatorio di Rebibbia, ma non avevo mai pensato che l'esperienza mi sarebbe servita. Solo che questa volta non sono una visitatrice, le chiavi ce l'ho io in mano. Dopo l'aggressione, un gruppo d'insegnanti propone di aprire piccoli finestrini nelle porte senza maniglie, per poter vedere chi bussa. Alla fine, gli oblò, appellativo marinaro surreale, non vengono fatti perché non abbiamo i soldi.Una delle ragazze entrate a Sciences Po ci ha chiamato il 30 settembre, alla vigilia del suo ingresso nella prestigiosa scuola. Non è francese, ed è senza documenti, ce lo aveva nascosto perché i liceali minorenni normalmente non temono niente. Irregolare, fuori legge e ormai maggiorenne, la situazione cambia. Teoricamente può essere espulsa in qualunque momento. Chiamiamo il direttore di Sciences Po. La ragazza ottiene il permesso di soggiorno. Sciences Po non è solo prestigiosa, è anche l'anticamera dell'École Nationale d'Administration, da cui escono quasi tutti i politici, e l'élite dello Stato.Di alunni sans papiers, maggiorenni, ne conto una decina all'ultimo anno delle superiori. A settembre ne hanno preso uno, che è stato messo in un centro di permanenza temporanea all'aeroporto di Roissy, in attesa di un aereo per il Camerun. Ci mobilitiamo in unadecina. All'aeroporto aspettiamo per ore, insieme a un deputato e al rappresentante della Lega per i diritti umani. Alla fine, non si capisce perché, veniamo caricati dalla polizia. Ci lanciano lacrimogeni, ma tutti i passeggeri della zona d'imbarco finiscono asfissiati e si arrabbiano con la polizia. Anche il pilota dell'aereo si rifiuta d'imbarcare il ragazzo, che è ammanettato. Finisce tutto in tribunale. Mille ragazzi delle banlieues si ammassano spontaneamente per due giorni di seguito davanti al tribunale, noi cerchiamo di evitare che finisca male, improvvisando un cordone di sicurezza intorno al corteo. Alla fine diventiamo un caso nazionale, facciamo la prima pagina dei quotidiani e l'apertura dei tg, e l'alunno sans papiers riesce a ottenere un permesso di soggiorno fino alla fine dell'anno scolastico. Il problema è solo rimandato nel tempo, ma abbiamo guadagnato un anno. Accanto a me, davanti al tribunale, un enorme ragazzone nero alto due volte quanto me, mi abbraccia, ballando e urlando di gioia, poi piange un po'. Il giorno dopo, gli alunni sono calmissimi, attenti e seri. Mi chiedono se il tema dei diritti è in programma. Spiego che ho previsto di fare i temi di filosofia politica dopo le vacanze di febbraio. Mai visto una classe così desiderosa di andare avanti nello studio.I sans papiers che conosco a scuola sono una decina. Ma quanti altri non lo hanno detto? Quanti lavorano al nero per sopravvivere? Quanti non hanno né casa néfamiglia di appoggio? Quanti non possono contare sul sistema sanitario?Un ragazzo ha dato di matto. Uno bravo, colto, simpatico, allegro e sveglio. Durante un compito in classe, per un'oscura storia di bianchetto prestato e non restituito, picchia una ragazza del banco accanto al suo, l'insulta e la minaccia pesantemente, poi esce urlando. La sera, l'aspetta davanti al liceo e l'aggredisce di nuovo, poi insulta tutti. Viene sospeso. Discutiamo con la famiglia. Il padre è morto. I fratelli sono tanti. Il fratello maggiore è stato espulso dal liceo per violenze. Anche la sorella è stata cacciata per violenze. Decidiamo di spezzare la catena. Chiediamo la reintegrazione del ragazzo, appoggiati dalla sua vittima che, inaspettatamente, ci sostiene. La direzione del liceo è scettica. Anche noi non siamo così sicuri, ma tentiamo. Lui torna dopo un mese. Vengono a galla pezzi di vita, uno alla volta, lentamente. A 14 anni, la polizia lo ha fermato e lui è scappato per paura. Gli hanno sparato un colpo di flashball nelle gambe. Gamba rotta. Il fratello grande, dopo l'esclusione scolastica, si è buttato nella religione "dura". Quando lo vediamo, è lui a pregarci di riprendere il fratellino a scuola. Storie di umiliazioni ordinarie, di miseria banale, di disperazione. Da quando è rientrato nel liceo, il ragazzo è tra i primi della classe, il primo a mediare allorché sorge un conflitto.Qualcuno mi dovrà pur spiegare perché la metà della classe si ostina a chiamare "Fred" il povero Freud, "Katt" il buon lmmanuel di K6nigsberg e "Pascal Blaise" il filosofo di Port-Royal. Rido, loro si offendono, e alla fine uno mi dice che anch'io non sono sempre così brava a memorizzare i loro nomi, che in effetti sono spesso un po' complicati per me. Facciamo pace: decidiamo di fare uno sforzo reciproco. Pascal, poi, piace enormemente, nonostante sia di una difficoltà immensa. Alla fine capisco perché: vi trovano un modo di non dover scegliere tra credenza e scienza. Le si riconosce come diverse, senza misura comune, senza gerarchia di merito. "Binari separati", dice un alunno. Nessuna delle due minaccia l'altra.Prima della lettura di Pascal, mi era quasi impossibile parlare delle rivoluzioni scientifiche ai ragazzi (tutto falso, dicevano spesso loro: una grande falsificazione dell'Occidente), per non parlare di Darwin. La frase di Aristotele che definisce l'uomo un animale politico scatenava insulti: l'uomo non è un animale, è creatura divina. Tutto sembrava terreno minato. Pascal permette stranamente di riprendere la discussione altrimenti. Il corso sul tema della religione è quello più appassionante. Leggiamo Marcel Mauss, leggiamo Mircea Eliade, leggiamo Averroè, leggiamo Marx, leggiamo Agostino. Leggiamo l'Antico Testamento e il Corano. Che m'importa, poi, se Marx lo chiamano "Max"?Faccio fare alla classe il commento scritto di un testo di Satre. Satre dice: non abbiamo accesso a qualcosa che potremmo definire natura umana. Ma possiamo parlare di un'universalità delle condizioni della vita umana, dentro la quale ognuno è libero di determinarsi come vuole. Il ragazzo che avevamo escluso per la violenza e gli insulti alla: sua compagna di classe, e che è stato reintegrato, mi consegna un'analisi molto rigorosa. E conclude: "La tesi di Sartre è assolutamente discutibile. Non esiste universalità delle condizioni della vita umana né libertà a determinarsi rispetto ad essa. Alcuni vivono. Altri invece sopravvivono. Non credo sia giusto pensare che è la stessa cosa".

02 marzo 2006

Un pagliaccio in carriera

Un pagliaccio in carriera

di ALESSANDRO ROBECCHI

E se adesso qualche assassino imbottito di tritolo fa saltare le nostre metropolitane, le nostre olimpiadi, le nostre stazioni dei treni, noi - noi poveri italiani in ostaggio di un governo di pazzi - a chi ne chiediamo conto? Al ministro delle riforme? Al premier che si allea coi nazisti? Ai nostri ragazzi laggiù che sparano alle ambulanze? Ai corifei soavi della guerra di civiltà che sorvolano dannunzianamente i supermercati per comprare burro danese? Il ministro Calderoli lo fa per difendere l'Occidente, ma l'Occidente sta messo così male da avere simili difensori? Spargere piscio di porco dove deve sorgere una moschea, come hanno fatto i militanti del partito di Calderoli, è una buona difesa? La faccia di Borghezio è uno spot efficace per difendere l'Occidente?

Non più tardi di ieri una mia amica mi dice: troppo facile far ridere con Calderoli, basta la parola, e non ho potuto che darle ragione. Ma è passata appena qualche ora e oplà: da ridere non c'era più niente. Il ministro che ha l'amante e ci fa enormi pipponi sulla famiglia faceva ridere, è vero. Il suo avvocato che scrive ai giornali di gossip diffidandoli di trattare la faccenda, fa ridere anche questo. C'è un banchiere in galera che dice di aver allungato allo stesso ministro alcune decine di migliaia di euro, e anche questo fa abbastanza ridere. Ma se a simili campioni di comicità si consente di giocare coi fiammiferi vicino alla benzina, la faccenda cambia, e Calderoli passa di categoria: da pagliaccio (ancorché ministro) ad agente provocatore.

Non sarà tutta colpa di Calderoli: se un partitino dal bislacco estremismo che raggiunge a malapena il quattro per cento può sfidare un miliardo di musulmani, è perché qualcuno gliel'ha permesso, gli ha dato un potere smisurato (ministri, reti televisive, sottosegretari), perché certi intellettuali organici al governo sono accorsi con taniche di benzina appena vedevano un accenno d'incendio. A proposito di far ridere, che dire di un governo - Berlusconi e Fini in testa - che cerca oggi di scopare sotto il tappeto un personaggio che fino a ieri teneva in salotto, in bella mostra, addirittura in un ministero strategico come quello delle riforme, e prima ancora come vicepresidente del Senato? Dov'era quel serio statista di Fini quando ministri del suo governo arringavano le folle padane con argomenti degni di una vecchia birreria di Monaco di Baviera? Intemperanze. Ragazzate.

Ma Calderoli è poca cosa. Così poca cosa che non riesce nemmeno ad essere lui il problema. Il problema, semmai, è quello di un'incapacità cronica nel fare politica, e politica estera in particolare. Le pacche sulle spalle e le serenate all'amico Putin hanno prodotto solo la chiusura dei rubinetti del gas. Sarà anche vero, come dice Magdi Allam sul Corriere, che Gheddafi non aspettava altro che un pretesto, ma offrirglielo su un piatto d'argento rappresenta la più alta forma di dilettantismo possibile e immaginabile. A meno che non sia malafede, e la cosa è ancor più grave.

Ora si annuncia una «intensa attività diplomatica» presso i paesi arabi, cioè Fini con l'aria contrita che va a spiegare, a chiedere scusa. Ma non sarà facile spiegare come un paese democratico abbia tra i suoi più importanti ministri un rozzo estremista fallaciano che insulta in tivù la giornalista mediorientale e la chiama «la signora abbronzata». Né sarà facile spiegare che per cacciare dal governo un figuro simile serve l'ok del boss di Gemonio. L'«intensa attività diplomatica» non riuscirà a spiegare l'inspiegabile, e il novanta per cento degli italiani che con lo scontro di civiltà non sono d'accordo (come il novanta per cento dei musulmani, del resto) rischiano di restare ostaggi, basiti, impauriti da una banda di ciarlatani che per governare non ha esitato a imbarcare piccoli piromani.

Oggi, si segue con una certa trepidazione il dibattito sui candidati impresentabili, ma sarebbe bene ricordare chi ci ha presentato Calderoli, che per magia è diventato impresentabile soltanto all'ultimo minuto della legislatura. Forse Berlusconi preferisce che si parli di qualche morto a Bengasi piuttosto che dell'avvocato Mills o del disastro economico in cui ha precipitato il Paese, e dunque la strategia è sempre quella: se c'è un fuocherello si appicca l'incendio, se c'è l'incendio si brucia tutta la prateria. E quelli che ci abitano, in questa prateria, cazzi loro: dopotutto, sono soltanto semplici italiani.