29 settembre 2006

Lidl, il low cost pagato dal lavoro

L'hard discount europeo sul modello Wal Mart: prezzi stracciati alle spese dei dipendentiOttanta ore a settimana in filiale, compresi i sabati e le domeniche. Lo scarico dei bancali, le pulizie, i turni iper-flessibili. Capi e cassiere spremuti al massimo, e i prezzi vanno giù. Il sindacato europeo e il blog di Beppe Grillo
Antonio Sciotto
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
19 settembre 2006

«Non cuciamo i palloni e siamo tutti maggiorenni, ma sopportiamo soprusi e condizioni di lavoro non certo degne di un paese che ha la pretesa di far parte dell'Unione europea: il monte ore mensile, 16 ore al giorno per 28 giorni, è di 448 ore, per una base oraria di 3,48 euro». Sì, proprio 16 ore di lavoro al giorno: si conclude così la lettera di Emanuele D, un giovane quadro della Lidl, pubblicata nel luglio scorso sul blog di Beppe Grillo ( beppegrillo.it) e che ha avuto una straordinaria «fortuna». Ben 2907 risposte alla data di ieri: tantissimi colleghi della Lidl, delle grandi catene di distribuzione e non solo, che condividono la stessa condizione di super-lavoro e precarietà. L' hard discountgenere Wal Mart - prezzi stracciati e lavoro ai ritmi della schiavitù - ha ormai un solidissimo esponente europeo: si chiama Lidl, è figlio di una potente famiglia del land tedesco del Baden Wuettenberg, gli Schwarz, e si è diffuso a macchia d'olio in venti paesi europei. Tanto che, allo stato attuale, il colosso dei supermercati low costconta 100 mila dipendenti e 6 mila punti vendita nel continente, dal Portogallo alla Polonia, dalla Finlandia all'Italia. Alla cassa stanno soprattutto le donne - con contratti part time e una retribuzione media mensile di 600 euro al mese. Per i posti di comando, i quadri e i dirigenti, la Lidl seleziona principalmente uomini, perlopiù laureati, che attraverso un durissimo training di 10 mesi vengono portati ad accettare la «filosofia del terrore»: il sottoposto lavora solo se lo maltratti, devi assicurarti che non rubi, e se protesta o si iscrive al sindacato devi fare di tutto per metterlo fuori.Sarebbe però erroneo descrivere i quadri come «privilegiati»: è vero che guadagnano dai 1300 euro in su e hanno l'auto aziendale, ma sono proprio loro a essere «triturati» per primi dal sistema Lidl. Lavorano il doppio delle ore da contratto (70-80 ore settimanali, senza percepire per questo un doppio salario), sono costretti a scaricare i camion, fare le pulizie e sostituire le cassiere quando manca il personale. Contro gli abusi del «sistema Lidl», ormai collaudato e uniforme in tutta Europa, si è attivato il sindacato tedesco Ver.di, lanciando la «campagna internazionale Lidl». Nel 2004 è stato pubblicato il primo «Libro nero», con le storie dei lavoratori tedeschi. Quest'anno è uscito il «Libro nero europeo», con le vicende dei 20 paesi in cui l' hard discountsi è diffuso, Italia compresa. Il manifestosi è recato a Berlino per raccontare la campagna Lidl, e nei prossimi numeri di questa inchiesta-reportage riferiremo dei lavoratori europei e della strategia sindacale dei Ver.di. Per questa prima puntata, abbiamo scelto di dialogare con i quadri e le cassiere italiane.«Mangio, dormo o mi lavo?»Prima di entrare in una filiale della Lidl, e parlare con i lavoratori, dobbiamo riferire dei recenti controlli avviati dall'ispettorato del lavoro su alcuni punti vendita: in particolare, gli ispettori si sono recati negli hard discountdell'area Piemonte-Liguria, dove hanno riscontrato - per quel che ci è dato sapere da alcune testimonianze dei lavoratori - irregolarità sulle liste presenza. Un punto non affatto secondario o di rilevanza solo formale: la Lidl, infatti, risparmia proprio sulla «presenza» dei lavoratori nei punti vendita. Nel senso che li mantiene quasi sempre sotto organico, obbligando i dipendenti di livello più alto e i quadri intermedi (capifiliale e capisettore) a lavorare molte più ore di quelle retribuite. Anche sulle cassiere si registrano casi di straordinari non retribuiti, ma i loro orari sono in genere più rigidi e gli abusi non sono abnormi come nel caso dei superiori. Piuttosto, le addette alla cassa subiscono un altro tipo di sopruso: i turni, che per il contratto del commercio dovrebbero essere fissi, vengono cambiati ogni due settimane o addirittura una; spesso anche di giorno in giorno. Così non puoi mai organizzarti la vita fuori dal negozio, né trovarti una seconda occupazione, devi essere sempre a disposizione: una sorta di «lavoro a chiamata».La prima testimonianza ci viene da uno dei gradini più alti nella piramide Lidl, un quadro. Usiamo un nome di fantasia, Luca, per tutelarlo: ha lavorato 18 mesi per la Lidl, è stato licenziato e adesso è in causa per il reintegro. E' entrato nel gennaio 2005 come «caposettore» dopo una serie di colloqui, per occuparsi di 4 filiali nell'area torinese (ma a un certo punto ne ha avute anche 7 da seguire). Il suo ruolo avrebbe dovuto consistere nell'organizzare e monitorare il lavoro in tutte le filiali: «Al colloquio mi hanno detto che avrei lavorato 38 ore a settimana, ovvero il full timedel contratto commercio. Ma subito misero le mani avanti: per il tuo ruolo di responsabilità - dissero - ti chiediamo comunque una "certa elasticità"». Mai Luca avrebbe potuto immaginare che quella «certa elasticità» si sarebbe trasformata in una totale dedizione (fisica e mentale) alla Lidl: orario di lavoro ininterrotto dalle 6,30 del mattino alle 22,30. Quasi sempre dal lunedì al sabato (invece dei cinque giorni da contratto), spesso anche la domenica, giornata dedicata all'inventario. Certo, lo stipendio è di 29 mila euro lordi l'anno, c'è l'auto aziendale, ma cosa te ne fai di un salario decente se non hai tempo per te stesso? E le mansioni? Fare tutto: dallo scaricare pesanti cassoni all'allestimento del banco frutta, dalle pulizie alla sostituzione cassa quando la cassiera finisce il turno. Moltiplicato per 4-5 locali, spesso distanti centinaia di chilometri l'uno dall'altro. Per i primi 6 mesi, in formazione, Luca viene affiancato a diversi capifiliale. «Lavoravano tutti molte più ore di quelle da contratto - racconta - ma nessuno aveva il coraggio di protestare».Così Luca continua a lavorare circa 16 ore al giorno, spesso senza avere il tempo neppure di mangiare un panino: nei primi tre mesi perde 5 chili, vede 20 capisettore dimettersi «per disperazione». Le domeniche erano quasi sempre regalate all'azienda, tanto che una volta si è trovato a fare 20 giorni consecutivi senza uno di riposo. Spesso veniva svegliato dai capi nel cuore della notte, per improvvise assenze di capifiliale: da Genova doveva così spostarsi a Torino, fare lì l'intera giornata di lavoro, e tornare poi in nottata a Genova, per riprendere l'indomani all'alba. «Arrivato in albergo, ogni sera, mi dicevo: mangio, dormo o mi lavo?». Questi ritmi disumani non figurano affatto sulle liste presenze: i capisettore segnano la «p» di presenza per commesse e capifiliale (loro sottoposti), senza indicare le ore lavorate. Per i capisettore, come Luca, la lista presenze è in mano ai capiarea (superiori con circa una quarantina di negozi), e lui afferma di non averla mai controfirmata. Una notte Luca finisce al pronto soccorso, per il forte stress: gli consigliano di fermarsi perché quei ritmi (e ha solo 28 anni) possono avere serie conseguenze sulla sua salute. Non si ferma, ma sarà la Lidl a liberarsi di lui: per una risposta ritenuta «di insubordinazione» a un capoarea, riceverà di lì a poco la lettera di licenziamento.Impari tutto al master LidlI ritmi disumani di lavoro, e il licenziamento finale, sono capitoli comuni alla storia di Emanuele D., l'ex caposettore Lidl che ha dato origine al blog di Grillo. C'è però una differenza di rilievo: la sua formazione, più recente, è avvenuta a Verona, dove i quadri e dirigenti Lidl frequentano un apposito master: «Lì - spiega Emanuele - ti fanno un lavaggio del cervello: ti spiegano che devi essere spietato con gli addetti vendita e le cassiere, e per tutto il corso della formazione in campo i superiori ti insultano e ti maltrattano, rimproverandoti continuamente per i risultati che non hai ottenuto. Il messaggio è semplice: ti tratto così, poi tu farai lo stesso con i sottoposti». I ritmi di lavoro vengono misurati con delle vere e proprie tabelle di produttività, dividendo il fatturato per le ore lavorate: chi si trova sotto i livelli minimi, deve prepararsi a un fuoco di fila di rimproveri e minacce. «Accade anche per le cassiere - spiega Felicita Magone, addetta vendita ad Albenga e delegata Cgil - Si divide l'incasso per le ore lavorate. Oltre a essere sempre sotto pressione, non possiamo programmarci la vita, o cercare un altro lavoro per integrare uno stipendio che si aggira sui 600 euro: l'orario ci viene comunicato ogni due settimane, e cambia sempre. In molte filiali gli orari cambiano ogni settimana». Le donne sono penalizzate: pochissime arrivano a diventare capofiliali, restano perlopiù al livello di cassiera. «Un capoaerea giustificò questa differenza di genere spiegando che "per una donna è complicato essere già pronta e truccata alle 6,30, quando deve aprire una filiale"», conclude Felicita.Walter Canta, capofiliale veneto, come Luca ha fatto una bella «cura dimagrante» stile Lidl: in soli dieci mesi di lavoro ha perso ben 8 chili, passando da 66 a 58 chili di peso. Walter racconta più da vicino il lavoro del negozio, perché il capofiliale ha la responsabilità di un solo punto vendita. Anche lui ha fatto 80 ore in media a settimana, sabati e domeniche inclusi, con lo «straordinario» tutto compreso nei cento euro lordi di «superminimo» erogati ogni mese. Ha lasciato perché ha contratto un'infiammazione alle spalle, a causa della «sbancalatura»: lo scarico, a partire dall'alba, di cassoni pesanti dai 10 ai 20 chili. E' un lavoro quotidiano che tocca a tutti i capifiliale e assistenti, così come le infiammazioni alle spalle, molto diffuse. «Per pranzo avevo a stento il tempo di mangiare un cracker, prendendolo dalla tasca, mentre scaricavo - racconta - Contavano le volte che andavo in bagno, ma nessuno protestava: se sbagli ti insultano violentemente». «Non è stato facile lasciare un posto a tempo indeterminato - conclude - oggi 1300 euro al mese assicurati sono una chimera. Ma tra l'infiammazione alla spalla, lo stress e il clima da terrore non ho retto più».

14 settembre 2006

Se gli insegnanti vi sembran troppi

Alcuni giorni fa è venuta trovarmi a Roma la mia amica Mariangela che da molti anni insegna nelle scuole italiane all’estero, ha passato cinque anni in Inghilterra e da due anni lavora a Manchester a stretto contato con le scuole inglesi. E’ stata l’occasione per ricordare i vecchi tempi del lavoro sindacale fatto insieme a Milano. Ma tra ricordi, nostalgie e polemiche (che tra due buoni amici di sinistra non mancano mai!) c’è stato anche il tempo per parlare di scuola inglese.

A questo proposito, tra le altre cose che non mancherò di raccontare in un altro momento, mi ha colpito il fatto che nelle scuole elementari di Manchester l’insegnante, che lì è unico, lavori dalle 9 alle 15 con un orario che prevede un quarto d’ora d’interruzione corrispondente alla ricreazione dei bimbi e un’ora di intervallo mensa in cui l’insegnante non segue gli alunni ma si fa gli affari suoi. Nell’insieme 4 ore e tre quarti di insegnamento frontale per cinque giorni alla settimana, poco più delle 4 ore e 24 minuti medie di un maestro nostrano impegnato su un orario di 5 giorni alla settimana. Ho chiesto allora chi vigilasse sui ragazzi durante la mensa e la ricreazione. Mi sono sentito rispondere che esistono tre o quattro persone fornite dal comune che svolgono questo compito. E che esiste anche per ogni classe un assistente, una specie di factotum, sempre pagato dal comune e prevalentemente non qualificato dal punto di vista pedagogico, che passa tutta la mattina con l’insegnante e gli alunni svolgendo compiti di sorveglianza, di approntamento dei sussidi didattici, delle fotocopie o quant’altro, di cura dei ragazzi svantaggiati e, in caso di necessità, di sorveglianza della classe.
Cito questo fatto perché, come periodicamente succede, in questi giorni siamo bersagliati da un ritornello che dice: gli insegnanti sono troppi, per questo la scuola costa molto e gli insegnanti sono pagati poco. E qui via sciorinare i dati: in Italia un insegnante ogni 10 alunni, in quest’altro paese invece uno ogni 12, uno ogni 14, uno ogni 16 ecc.
Già! Ma mi chiedo nel caso dell’Inghilterra, che abbiamo appena visto coloro che curano i ragazzi a mensa o che fanno gli assistenti in classe entrano nel conto? Ne dubito! Anzi, nel caso specifico sono sicuro di no, trattandosi di personale non qualificato per insegnare. E non entrano neppure nella contabilità del Ministero dell’Educazione trattandosi di dipendenti comunali.
Così come dipendono dai comuni gli amministrativi e i bidelli, i quali , contrariamente a una leggenda metropolitana che li voleva una peculiarità solo italiana, esistono in tutto il mondo, solo che raramente dipendono dalla stessa amministrazione che gestisce il personale docente e fanno parte degli stessi sindacati di categoria dei docenti.
Ma che siano dipendenti di qua o di là, docenti o ata che siano, i loro stipendi sono comunque un carico per la collettività e la pretesa dei rigoristi nostrani che urlano alla troppa spesa per la scuola si riduce in realtà ad una semplice differenza di voci di spesa e di capitoli di uscita nei bilanci statali, non ad una reale riduzione della spesa pubblica e del personale, dal momento che, anche se magari un assistente costa meno di un insegnante, gli stipendi degli insegnanti sono notevolmente più alti..

Qualcuno potrebbe pensare che il caso inglese costituisca un’eccezione. E invece no. In Francia succede la stessa cosa. Con una popolazione pari all’Italia e quindi una popolazione scolastica non tanto dissimile la Francia sembra avere un numero di insegnanti sensibilmente inferiore: circa 600.000 contri i nostri 800.000. Ma se si va a veder la totalità del personale impegnato nel sistema scolastico francese (università escluse) si scopre che in Francia vi lavorano circa 1.600.000 addetti contro 1.100.000 impiegati in Italia.
Come mai questa differenza? Essa è dovuta a quattro fattori.
Il primo: in Francia il sistema scolastico fa capo a tre ministeri diversi: quello dell’Educazione nazionale (che retribuisce la maggior parte dei docenti), quello della Gioventù e dello Sport (che retribuisce i docenti di educazione fisica) e quello dell’Agricoltura e della Pesca ( che retribuisce i docenti dei licei agricoli, il corrispettivo dei nostri Istituti Agrari).
Il secondo: a partire dal 1998 sono stati introdotti con compiti di assistentato figure a contratto quinquennale: sono giovani diplomati al primo impiego, si chiamano aiuto-educatori ( aides-educateurs), sono 70.000 e la loro assunzione è finanziata dal Ministero del Lavoro, con i fondi per il primo impiego. I loro compiti variano dalla vigilanza allo studio sussidiario, dall’animazione alla cura in mensa e, se le competenze lo consentono, dai laboratori di informatica alla sostituzione degli insegnanti assenti. Non si tratta di insegnanti, non ne hanno la qualifica e spesso neppure un diploma utile, ma ne svolgono molti compiti.
Il terzo: esistono nel settore dei licei professionali una serie di insegnanti a contratto, professionisti impegnati nelle materie di tecnica professionale: il loro contratto non sempre è annuale né per orari definibili di cattedra. Non vengono certo conteggiati tra i docenti stabilizzati.
Il quarto: esistono oltre al personale ata vero e proprio (bidelli, amministrativi e tecnici), figure non docenti inferiori e superiori, che potremmo definire paradocenti: i MI-SE, sorveglianti, a 36 ore settimanali, costituiti da studenti magistrali “in carriera”, addetti ad animazione e studio sussidiario; i MA, docenti ausiliari, non abilitati ma inquadrati nel sistema; i consiglieri di educazione e i consiglieri principali di educazione, sorta di vicepresidi distaccati o di coordinatori disciplinari; i Co-psy, orientatori psicopedagogici; i medici scolastici che non si limitano al pronto soccorso ma tengono i corsi di igiene. Di prevenzione sanitaria e di educazione sessuale.Tutte figure, tranne i consiglieri di educazione, che difficilmente rientrano nel computo del personale docente vero e proprio.

Insomma se si va guardare nelle cuciture della scuola internazionale ( qui ci limitiamo a quella europea) scopriamo che differenziando le figure si possono alterare anche dei conti, nascondere delle voci, ma, a meno che non si vogliano tagliare drasticamente i servizi, alla fine i conti pubblici debbono poi tornare o sotto al forma di spese del ministero dell’istruzione o sotto quella di altri ministeri o sotto quella del finanziamento degli enti locali, per non dire persino dei finanziamenti alle aziende.
A questo proposito è illuminante l’esempio della Germania. Qui operano nel settore dell’educazione duale circa 700.000 tutor aziendali accreditati con appositi esami di “mastro operaio” che curano gli apprendisti che a loro volta apprendono nell’alternanza scuola-lavoro. Si tratta di 700.000 persone pagate dalle aziende e che probabilmente ricevono un’indennità o un incentivo per il ruolo che svolgono verso questi ragazzi, ma per il quale le aziende stesse ricevono dallo Stato finanziamenti pubblici. Non si vuole qui entrare nel merito dell’efficacia del metodo, questione che da sola potrebbe essere oggetto di ampie dissertazioni, ma non si vorrà far credere che lo stato tedesco sborsi in indennità per 700.000 (settecentomila!) persone meno di quanto sborsi il nostro ministero per gli stipendi di 24.000 (ventiquattromila!) insegnanti tecnico pratici che operano nei laboratori delle scuole italiane più o meno con lo stesso obiettivo di insegnare ai ragazzi a manovrare una macchina utensile o a costruire un impianto?

Naturalmente si potrebbe continuare citando altre decine di casi. Sempre per rimanere nell’Unione Europea: il mediatore che lavora a combattere dispersione e insuccesso scolastico tra i figli degli immigrati nelle scuole del Belgio francofono, o il supporto libero del Belgio fiammingo, il Lehrer fur sonderpaedagogisce Lehramter tedesco, simile al nostro insegnante di sostegno, o il Didaskalos Idikis Agogis greco che lavora sui casi problematici, o il Profesor de Apoyo spagnolo, che come i nostri “sostegnisti” spesso denuncia di non essere usato per i portatori di handicap ma per supplire i colleghi assenti, o gli Special Needs Assistants della scuola irlandese, o i vari Sonderschullehrer, Begleitlehrer, Lehrer fur muttersprachlichen Unterricht austriaci, o il Profesor de Apoio Educativo portoghese, assistenti non “sostegnisti” stavolta, o i finlandesi Eritysluokanopettaja, Erityispettaja, Koulunkavatiayustaja troppo difficili da scriversi per chiedersi anche cosa facciano, o lo Specialpedagog svedese o gli Asistent Ucitela cechi e slovacchi e gli ungheresi Gyogipedagogus, Szocialpedagogus e Konduktor, o gli Eripedagogoog estoni, gli Specialusis Pedagogas lituani, o i Facilitatori. maltesi. Chissà quanti di questi soggetti che operano nella scuola in funzioni docenti, paradocenti o altro vengono calcolati quando si fanno i conti sul corpo docente.

Noi italiani abbiamo fatto una scelta diversa negli anni del nostro boom scolastico: quello di caricare pressoché tutte le spese allo Stato e tutti i compiti alla figura docente, da quelli più umili come vigilare in mensa a quelli più difficili come sostenere in classe i portatori di handicap. Anche noi avevamo le assistenti nella scuola materna ad esempio o le insegnanti comunali di doposcuola, ma li abbiamo riassorbiti le prime, prevalentemente diplomate, tra le insegnanti, mentre i doposcuola comunali sono stati a poco a poco sostituiti da quelli statali. E abbiamo un sistema di integrazione generalizzato che occupa quasi 100.000 insegnanti di sostegno.
E’ stato forse uno sbaglio fare “todos caballeros”?
Se ne potrebbe anche discutere da un punto di vista pedagogico o gestionale, ma non certo da un punto di vista contabile. Tanto più che nello stesso momento in cui si dicono queste cose si tagliano i fondi agli enti locali che eventualmente dovrebbero subentrare in questi servizi che, fatti dall’uno o dall’altro, sono indispensabili. Come si faccia poi a legare a ciò anche eventuali stipendi migliori per i docenti rimasti andrebbe spiegato: o si incentiva un cannibalismo tra docenti di serie A e docente di serie B o si pensa che a livello decentrato esistano trucchi migliori per falsare i bilanci o per imbrogliare i lavoratori.
In verità alcuni fatti ci dimostrano che l’alternativa si gioca tra la perdita di un servizio o la sua qualificazione insieme alla negazione dei diritti di chi vi lavora. In Francia lo scorso anno il governo Raffarin decise di dare un taglio alle spese per la scuola. Ci fu una levata di scudi degli insegnanti e dei loro sindacati. Non taglieremo i docenti, disse Raffarin, taglieremo gli aiuto-educatori e i sorveglianti. Ma il servizio scolastico non funzionerà, ribatterono le famiglie. Ci metteremo ex-insegnanti già in pensione e casalinghe senza figli, che costano meno e magari a casa si annoiano pure, fu la risposta.
E’ dunque fuori luogo il timore che esprimono i nostri maestri elementari quando si comincia distinguerli in maestri tutor e maestri coadiutori (aides-educateurs?)? E’ fuori luogo il pensare che il vero risparmio a cui si mira quando si dicono queste cose non stia solo nella riduzione degli insegnanti per pagare meglio i restanti ma nel creare le condizioni perché una parte di loro sia pagata meno, sia ricattabile e abbia meno diritti?
Pino Patroncini

09 marzo 2006

In Banlieue con Pascal

di Judith Revel L'espresso 2 marzo 2006

Io, in banlieue, ci sono cresciuta. Ma c'è banlieue e banlieue: quella "fredda" e quella "calda", mi hanno spiegato i ragazzi ai quali insegno filosofia. La banlieue dove il ministro-sceriffo Sarkozy vive, e di cui è il sindaco: Neuilly, i suoi attori di grido, i suoi calciatori miliardari, i suoi cantanti alla moda, il suo altissimo reddito pro capite; e poi l'altra banlieue, quella dei "quartieri", delle "cités", un alternarsi di villini modesti e di enormi palazzoni anni Sessanta dove si ammucchiano migliaia di famiglie. A volte non ci sono neanche più i villini. Veramente, a volte non ci sono neanche più le panche nei giardini pubblici, che poi non sono più giardini da tempo: senza giochi per bambini, senza erba né fiori: alla fine si percepisce solo un piccolo spazio vuoto, un buco nero urbano, una dimenticanza, e quello per l'appunto si chiama giardino pubblico. A volte non ci sono le fermate degli autobus (due possibilità: qui, per evitare i "quartieri", non passano più gli autobus, oppure la segnalazione della fermata è andata distrutta), a volte mancano i cassettoni dell'immondizia, quasi sempre le cassette delle lettere negli ingressi dei palazzoni sono spaccate. E poi: ascensori che non funzionano da mesi - i palazzoni spesso superano otto piani - pareti imbrattate, cemento sgretolato, bruttura, muri talmente sottili da impedire ogni forma di privacy. Ragazzi annoiati appollaiati sui muretti. Ragazzi per le rampe delle scale, seduti sui gradini. Ragazzi nelle cantine. Le palestre sono rare. Anche i cinema, le piscine, i campi di calcio, i centri culturali. E poi costano. I centri commerciali sono gratis e sono riscaldati. Anche le scale dei palazzoni e le cantine. Allora spesso si sta lì, ad aspettare di veder passare il tempo, che passa ma non scorre, perché passa a grumi, ed è tremendamente lento.La mia banlieue di origine è un'altra: ha arie di Nuova Inghilterra, i suoi abitanti sembrano usciti da quelle foto della famiglia Kennedy che hanno consacrato il fascino dei denti bianchi e delle ragazze senza trucco, o per lo meno quello è il modello estetico riconosciuto da tutti. Tanti soldi, ma niente chiasso: la mia banlieue è bella, ricca, discreta. Ed è gelida.Compito in classe, corso di economia e scienze sociali, prima superiore. Domanda sulla nozione di reddito. Un collega mi fa leggere un compito. L'alunno ha scritto: "Ci sono i ricchi e i poveri. I ricchi sono: i bianchi, i poliziotti, gli insegnanti, e quelli che abitano in una casa". Ridiamo, ma ce lo prendiamo in faccia. Cosa scrivere a lato, "risposta insufficiente"?Le banlieues, quelle "calde", ne parlano in tanti. Quanti sono veramente andati a vedere? Forse vedere non basta. Bisogna starci. Ho ricevuto la mia nomina nell'estate 2004. Vivevo da 12 anni a Roma, insegnavo par-time in un liceo rinomato, sezione internazionale italo-francese, il resto del tempo all'università come docente a contratto. Ho i titoli per tornare in Francia e chiedere una cattedra universitaria, ma devo aspettare di passare in commissione nazionale. Un paio d'anni, forse tre, da trascorrere al liceo. A me piace insegnare. Chiedo il posto più vicino a Parigi. Mi hanno dato un liceo a otto chilometri dalla capitale, a nord. Dipartimento di Seine-Saint Denis, liceo targato "zona di educazione prioritaria", qualificato "sensibile", e come se non bastasse, "obiettivo prioritario prevenzione violenza". Ho guardato su Internet: non sembra neanche tanto brutto. Il liceo ha una trentina di anni, 1.200 alunni, insegnamento generale e tecnico. Insegnante di filosofia aggredito qualche anno prima. Vicepreside aggredito recentemente. Due bombe all'acido (lo saprò dopo: molotov all'acido muriatico) lanciate in sala dei professori. Tentativo d'incendio all'infermeria. Auguri.Vado a presentarmi. La preside mi riceve, ma se ne sta andando in provincia, sono i suoi ultimi giorni. Tre i punti del suo discorsetto di benvenuto. Uno: <<È un'esperienza pedagogica e umana formidabile, vedrà quant'è bello". Due: "Lei si chiama Judith?Meglio non dirlo, si faccia chiamare Maidame Revel". Tre: "Non parli mai di religione e andrà tutto bene". Le ricordo che il programma di filosofia, che in Francia non è cronologico ma tematico, prevede lo studio del tema della religione. Mi guarda come se fossi matta! La banlieue non è così temibile come sembra,è solo lontana. Da casa mia, nella parte sud della capitale, alla fermata di banlieue dove scendo dopo due cambi di metro, impiego mezz'ora. Sono una decina di chilometri. Dalla fermata al liceo, vado a piedi, non ci sono autobus. Impiego 15 minuti per coprire l'ultimo chilometro. Lo spazio urbano non è identico ovunque: il movimento rallenta man mano che ci si allontana dal centro di Parigi. La rete dei trasporti, fittissima nella capitale, si sparpaglia spesso nel vuoto non appena si varcano i confini delle banlieues. Dalla mia banlieue natia alla Sorbona, da ragazza, impiegavo 12 minuti in metro e tre minuti a piedi. Dal liceo dove insegno al quartiere della Sorbona, dove vivo oggi, ne impiego 45. La distanza è pressoché equivalente. Lo spazio non è uguale per tutti. Il tempo non è uguale per tutti. Nel programma di filosofia, ci sono anche i temi del tempo, del potere, della democrazia, della libertà. Mi viene da ridere. In banlieue, si ride spesso.Statisticamente, nelle mie classi, conto il 55 per cento di francesi di origine maghrebina,il 35 per cento di ragazzi di origine africana e il 1O per cento di "altri". A parte i sans papiers che, in effetti non sono francesi e avranno prima o poi problemi legali una volta maggiorenni, sono tutti "francesi". Eppure chiamano noi "francesi". Chiedo loro'perché. Non è una storia di colore, o di identità comunitaria, emica o religiosa: parte dei colleghi insegnanti sono anche loro di origine immigrata. Per i ragazzi delle banlieues, "francese" è colui che ha diritti. lo ho diritti, loro non sempre. Aver diritti significa vivere in modo dignitoso, avere un luogo di vita piacevole e pulito, un accesso all'educazione. E poi: non vivere la dove la disoccupazione supera il 40 per cento, poter viaggiare, poter imparare, poter sognare. E ancora: non stare in 12 in tre stanze in attesa di un alloggio sociale, riuscire ad avere un posto al nido per i più piccoli, non dover lavorare al nero anche da minorenni. A volte, significa semplicemente poter mangiare e dormire.Durante gli eventi dell'autunno, sono state bruciate prevalentemente scuole, macchine e autobus. Le scuole sono il simbolo di un fallimento che comincia già dall'asilo. Non che i ragazzi non siano capaci: è il sistema scolastico che non ha più i mezzi per funzionare. Produciamo esclusione e basta. Macchine e autobus invece sono mezzi di trasporto privato e pubblico: simboli di una mobilità fisica e sociale rallentata, difficile, dolorosa.L'ultima fermata parigina prima della banlieue è Gare du Nord: stazione ferroviaria, stazione di metropolitana e punto di partenza dei treni di banlieue nord. E poi: centro commerciale, dormitorio dei barboni quando fa freddo, luogo d'incontro. La mattina alle sette, quando salgo sul treno di banlieue, la popolazione è soprattutto immigrata. Arriva a Parigi quando io ne parto. La sera, loro ripartono, io torno a casa. Abbiamo orari e spostamenti opposti. E una cosa in comune: il sonno.Compito in classe, prima superiore, geografia. Domanda: Citate tre capitali. Risposta: Agadir, Marrakech, Gare du Nord.Per portare i ragazzi a teatro, al cinema o nei musei parigini, loro devono fare il biglietto per Gare du Nord, ma cambia la zona di tariffazione. Il loro abbonamento, se ce l'hanno, non basta. Costa 2 euro e 20 centesimi la sola andata. C'è chi non può pagare e non lo vuole dire, così, finisce sempre che l'uno o l'altro venga controllato e multato.Alla fine di una lezione sui temi del bene e del male, ho detro ad alcuni alunni che mi'aveva impressionato "Dogville" di Lars von Trier. Sulla fiducia (perché nessuno di loro ha mai sentito parlare di Lars Von Trier), hanno trovato il dvd. Sono rimasti sconvolti. Da allora dico loro i film che non mi voglio perdere. Si è formato un gruppetro che va al cinema, poi discutiamo. Per esempio, in quello spazio omofobico per eccellenza che è la banlieue "calda", "Il segreto di Brokeback Mountain" ha per la prima volta permesso una discussione aperta con i maschi sulla loro violenza anti-omosessuale. Valanga di domande. Discutere vuoi dire questo: aver il diritto a fare domande senza paura. Spiego loro che la filosofia è questa: formulare domande, più che dare risposte.Ormai andiamo anche al museo insieme la domenica, in orari non scolastici, "come amici", dicono loro. Da gennaio gli studenti possono entrare gratis nei musei nazionali. Si discute di tutto. Lascio a scuola i due quotidiani che compro ogni giorno, loro se li passano e li leggono. Siamo una decina di insegnanti a lavorare in quella direzione. Il mercoledì pomeriggio, prepariamo alcuni di loro - una quarantina - al difficile concorso dell'Institut d'Études Politiques (Sciences Po) che si può tentare dopo la maturità, in virtù di un programma di discriminazione positiva per i ragazzi dei licei "caldi" lanciato sette anni fa. Siamo riusciti a entrare nel protocollo sperimentale l'anno scorso: 45 ragazzi delle banlieues accedono ogni anno in quella scuola d'elite, provenienti da una ventina di licei. Prima constatazione: a me, la discriminazione positiva non piaceva, perché lavorare con 40 ragazzi quando sono in 1.200 ? Seconda constatazione: quando finalmente ce l'hannofatta in tre, a luglio scorso, a superare il concorso, ho provato gioia e mi sono rimangiata i miei scrupoli politici. Terza constatazione: i 37 nostri che non ce l'hanno fatta a superare il concorso comunque ce l'hanno fatta lo stesso; scoprono di aver diritto a desiderare. Lo so che non basta il desiderio. Ma senza desiderio, niente vale la pena. Bruciare le macchine, come a novembre scorso,vuol dire: non riesco più ad avere desiderio. Il desiderio è il quarto tema in programma nel corso di filosofia all'ultimo anno di liceo. Mai visto tanti ragazzi affascinati dagli stoici. Epitteto: "Non desiderare ciò che non dipende da te: onori, salute, ricchezza". Uno mi chiede: "Si può anche non essere d'accordo con gli stoici, vero?".Se avessimo i mezzi umani necessari (e non 35 alunni per classe), se potessimo seguire uno a uno tutti i nostri ragazzi come facciamo il mercoledì pomeriggio, tutti diventerebbero bravi. C'è una quantità d'intelligenza spaventosa in banlieue. Enorme, e lasciata marcire su se stessa, senza sbocco. Il progetto Sciences Po ne è la prova: quattro ore di mercoledì pomeriggio, quattro ore di insegnamento personalizzato e di qualità, quattro ore di fiducia progressivamente costruita e di discussione incessante, per 30 settimane di seguito, bastano a trasformare quelli che un ministro della Repubblica chiamò dei "sauvageons", e che più recentemente un altro ministro qualificò "racailles", in studenti brillanti. Quelle ore del mercoledì pomeriggio ci vengono pagare in tutto e per tutto con quattro ore di straordinario all'anno per insegnante. Ne facciamo 20 volte tanto ciascuno. Gratis. Volontariato, non carità. Questa è l'unica possibilità che noi abbiamo di dare senso al nostro lavoro. Lo facciamo per loro, ma lo facciamo anche per noi. Domanda da mille dollari: quanto costa sradicare la miseria umana e sociale attraverso l'educazione e la formazione? E invece: quanto costa, come ci viene ripetutamente proposto, assegnare un poliziotto a ogni scuola di Francia? Fino a che punto la dimissione dello Stato sarà coperta dalla buona volontà?Venti giorni dopo il mio arrivo una professoressa è stata aggredita nella sua classe. Hanno bussato alla sua porta alle nove di mattina, lei ha aperto, ha preso in faccia una bomboletta lacrimogena. Se non avesse avuto gli occhiali, avrebbe perso la vista. Andiamo in delegazione al Provveditorato. Chiediamo più mezzi umani, classi da 20 alunni, locali più dignitosi. Il rappresentante ci interrompe: con quale razzismo sociale vi permettete di trattare questi bravi ragazzi come delinquenti? Alla fine dell'incontro ci propone una telecamera di sorveglianza in più, ma ne abbiamo già tante. Il suo non è razzismo, è visione pragmatica. E noi siamo la valvola di sicurezza di una pentola a pressione che sta per esplodere e che viene pregata di non fischiare a segnalare il pericolo. Esco, mi siedo per terra e piango di rabbia e di umiliazione. Non sono più un'insegnante. Sono una di loro. Perché il loro fallimento scolastico è anche il mio, perché il disprezzo con il quale ci viene proposta una telecamera di sorveglianza, negandoci tutto il resto, risveglia in me qualcosa che assomiglia all'odio.A scuola, dopo la storia delle bombe all'acido in sala dei professori, hanno tolto tutte le maniglie esterne alle porre. Si va in giro con un mazzo di chiavi,e ci si chiude dentro le aule con i ragazzi. A Roma ho frequentato per un anno il parlatorio di Rebibbia, ma non avevo mai pensato che l'esperienza mi sarebbe servita. Solo che questa volta non sono una visitatrice, le chiavi ce l'ho io in mano. Dopo l'aggressione, un gruppo d'insegnanti propone di aprire piccoli finestrini nelle porte senza maniglie, per poter vedere chi bussa. Alla fine, gli oblò, appellativo marinaro surreale, non vengono fatti perché non abbiamo i soldi.Una delle ragazze entrate a Sciences Po ci ha chiamato il 30 settembre, alla vigilia del suo ingresso nella prestigiosa scuola. Non è francese, ed è senza documenti, ce lo aveva nascosto perché i liceali minorenni normalmente non temono niente. Irregolare, fuori legge e ormai maggiorenne, la situazione cambia. Teoricamente può essere espulsa in qualunque momento. Chiamiamo il direttore di Sciences Po. La ragazza ottiene il permesso di soggiorno. Sciences Po non è solo prestigiosa, è anche l'anticamera dell'École Nationale d'Administration, da cui escono quasi tutti i politici, e l'élite dello Stato.Di alunni sans papiers, maggiorenni, ne conto una decina all'ultimo anno delle superiori. A settembre ne hanno preso uno, che è stato messo in un centro di permanenza temporanea all'aeroporto di Roissy, in attesa di un aereo per il Camerun. Ci mobilitiamo in unadecina. All'aeroporto aspettiamo per ore, insieme a un deputato e al rappresentante della Lega per i diritti umani. Alla fine, non si capisce perché, veniamo caricati dalla polizia. Ci lanciano lacrimogeni, ma tutti i passeggeri della zona d'imbarco finiscono asfissiati e si arrabbiano con la polizia. Anche il pilota dell'aereo si rifiuta d'imbarcare il ragazzo, che è ammanettato. Finisce tutto in tribunale. Mille ragazzi delle banlieues si ammassano spontaneamente per due giorni di seguito davanti al tribunale, noi cerchiamo di evitare che finisca male, improvvisando un cordone di sicurezza intorno al corteo. Alla fine diventiamo un caso nazionale, facciamo la prima pagina dei quotidiani e l'apertura dei tg, e l'alunno sans papiers riesce a ottenere un permesso di soggiorno fino alla fine dell'anno scolastico. Il problema è solo rimandato nel tempo, ma abbiamo guadagnato un anno. Accanto a me, davanti al tribunale, un enorme ragazzone nero alto due volte quanto me, mi abbraccia, ballando e urlando di gioia, poi piange un po'. Il giorno dopo, gli alunni sono calmissimi, attenti e seri. Mi chiedono se il tema dei diritti è in programma. Spiego che ho previsto di fare i temi di filosofia politica dopo le vacanze di febbraio. Mai visto una classe così desiderosa di andare avanti nello studio.I sans papiers che conosco a scuola sono una decina. Ma quanti altri non lo hanno detto? Quanti lavorano al nero per sopravvivere? Quanti non hanno né casa néfamiglia di appoggio? Quanti non possono contare sul sistema sanitario?Un ragazzo ha dato di matto. Uno bravo, colto, simpatico, allegro e sveglio. Durante un compito in classe, per un'oscura storia di bianchetto prestato e non restituito, picchia una ragazza del banco accanto al suo, l'insulta e la minaccia pesantemente, poi esce urlando. La sera, l'aspetta davanti al liceo e l'aggredisce di nuovo, poi insulta tutti. Viene sospeso. Discutiamo con la famiglia. Il padre è morto. I fratelli sono tanti. Il fratello maggiore è stato espulso dal liceo per violenze. Anche la sorella è stata cacciata per violenze. Decidiamo di spezzare la catena. Chiediamo la reintegrazione del ragazzo, appoggiati dalla sua vittima che, inaspettatamente, ci sostiene. La direzione del liceo è scettica. Anche noi non siamo così sicuri, ma tentiamo. Lui torna dopo un mese. Vengono a galla pezzi di vita, uno alla volta, lentamente. A 14 anni, la polizia lo ha fermato e lui è scappato per paura. Gli hanno sparato un colpo di flashball nelle gambe. Gamba rotta. Il fratello grande, dopo l'esclusione scolastica, si è buttato nella religione "dura". Quando lo vediamo, è lui a pregarci di riprendere il fratellino a scuola. Storie di umiliazioni ordinarie, di miseria banale, di disperazione. Da quando è rientrato nel liceo, il ragazzo è tra i primi della classe, il primo a mediare allorché sorge un conflitto.Qualcuno mi dovrà pur spiegare perché la metà della classe si ostina a chiamare "Fred" il povero Freud, "Katt" il buon lmmanuel di K6nigsberg e "Pascal Blaise" il filosofo di Port-Royal. Rido, loro si offendono, e alla fine uno mi dice che anch'io non sono sempre così brava a memorizzare i loro nomi, che in effetti sono spesso un po' complicati per me. Facciamo pace: decidiamo di fare uno sforzo reciproco. Pascal, poi, piace enormemente, nonostante sia di una difficoltà immensa. Alla fine capisco perché: vi trovano un modo di non dover scegliere tra credenza e scienza. Le si riconosce come diverse, senza misura comune, senza gerarchia di merito. "Binari separati", dice un alunno. Nessuna delle due minaccia l'altra.Prima della lettura di Pascal, mi era quasi impossibile parlare delle rivoluzioni scientifiche ai ragazzi (tutto falso, dicevano spesso loro: una grande falsificazione dell'Occidente), per non parlare di Darwin. La frase di Aristotele che definisce l'uomo un animale politico scatenava insulti: l'uomo non è un animale, è creatura divina. Tutto sembrava terreno minato. Pascal permette stranamente di riprendere la discussione altrimenti. Il corso sul tema della religione è quello più appassionante. Leggiamo Marcel Mauss, leggiamo Mircea Eliade, leggiamo Averroè, leggiamo Marx, leggiamo Agostino. Leggiamo l'Antico Testamento e il Corano. Che m'importa, poi, se Marx lo chiamano "Max"?Faccio fare alla classe il commento scritto di un testo di Satre. Satre dice: non abbiamo accesso a qualcosa che potremmo definire natura umana. Ma possiamo parlare di un'universalità delle condizioni della vita umana, dentro la quale ognuno è libero di determinarsi come vuole. Il ragazzo che avevamo escluso per la violenza e gli insulti alla: sua compagna di classe, e che è stato reintegrato, mi consegna un'analisi molto rigorosa. E conclude: "La tesi di Sartre è assolutamente discutibile. Non esiste universalità delle condizioni della vita umana né libertà a determinarsi rispetto ad essa. Alcuni vivono. Altri invece sopravvivono. Non credo sia giusto pensare che è la stessa cosa".

02 marzo 2006

Un pagliaccio in carriera

Un pagliaccio in carriera

di ALESSANDRO ROBECCHI

E se adesso qualche assassino imbottito di tritolo fa saltare le nostre metropolitane, le nostre olimpiadi, le nostre stazioni dei treni, noi - noi poveri italiani in ostaggio di un governo di pazzi - a chi ne chiediamo conto? Al ministro delle riforme? Al premier che si allea coi nazisti? Ai nostri ragazzi laggiù che sparano alle ambulanze? Ai corifei soavi della guerra di civiltà che sorvolano dannunzianamente i supermercati per comprare burro danese? Il ministro Calderoli lo fa per difendere l'Occidente, ma l'Occidente sta messo così male da avere simili difensori? Spargere piscio di porco dove deve sorgere una moschea, come hanno fatto i militanti del partito di Calderoli, è una buona difesa? La faccia di Borghezio è uno spot efficace per difendere l'Occidente?

Non più tardi di ieri una mia amica mi dice: troppo facile far ridere con Calderoli, basta la parola, e non ho potuto che darle ragione. Ma è passata appena qualche ora e oplà: da ridere non c'era più niente. Il ministro che ha l'amante e ci fa enormi pipponi sulla famiglia faceva ridere, è vero. Il suo avvocato che scrive ai giornali di gossip diffidandoli di trattare la faccenda, fa ridere anche questo. C'è un banchiere in galera che dice di aver allungato allo stesso ministro alcune decine di migliaia di euro, e anche questo fa abbastanza ridere. Ma se a simili campioni di comicità si consente di giocare coi fiammiferi vicino alla benzina, la faccenda cambia, e Calderoli passa di categoria: da pagliaccio (ancorché ministro) ad agente provocatore.

Non sarà tutta colpa di Calderoli: se un partitino dal bislacco estremismo che raggiunge a malapena il quattro per cento può sfidare un miliardo di musulmani, è perché qualcuno gliel'ha permesso, gli ha dato un potere smisurato (ministri, reti televisive, sottosegretari), perché certi intellettuali organici al governo sono accorsi con taniche di benzina appena vedevano un accenno d'incendio. A proposito di far ridere, che dire di un governo - Berlusconi e Fini in testa - che cerca oggi di scopare sotto il tappeto un personaggio che fino a ieri teneva in salotto, in bella mostra, addirittura in un ministero strategico come quello delle riforme, e prima ancora come vicepresidente del Senato? Dov'era quel serio statista di Fini quando ministri del suo governo arringavano le folle padane con argomenti degni di una vecchia birreria di Monaco di Baviera? Intemperanze. Ragazzate.

Ma Calderoli è poca cosa. Così poca cosa che non riesce nemmeno ad essere lui il problema. Il problema, semmai, è quello di un'incapacità cronica nel fare politica, e politica estera in particolare. Le pacche sulle spalle e le serenate all'amico Putin hanno prodotto solo la chiusura dei rubinetti del gas. Sarà anche vero, come dice Magdi Allam sul Corriere, che Gheddafi non aspettava altro che un pretesto, ma offrirglielo su un piatto d'argento rappresenta la più alta forma di dilettantismo possibile e immaginabile. A meno che non sia malafede, e la cosa è ancor più grave.

Ora si annuncia una «intensa attività diplomatica» presso i paesi arabi, cioè Fini con l'aria contrita che va a spiegare, a chiedere scusa. Ma non sarà facile spiegare come un paese democratico abbia tra i suoi più importanti ministri un rozzo estremista fallaciano che insulta in tivù la giornalista mediorientale e la chiama «la signora abbronzata». Né sarà facile spiegare che per cacciare dal governo un figuro simile serve l'ok del boss di Gemonio. L'«intensa attività diplomatica» non riuscirà a spiegare l'inspiegabile, e il novanta per cento degli italiani che con lo scontro di civiltà non sono d'accordo (come il novanta per cento dei musulmani, del resto) rischiano di restare ostaggi, basiti, impauriti da una banda di ciarlatani che per governare non ha esitato a imbarcare piccoli piromani.

Oggi, si segue con una certa trepidazione il dibattito sui candidati impresentabili, ma sarebbe bene ricordare chi ci ha presentato Calderoli, che per magia è diventato impresentabile soltanto all'ultimo minuto della legislatura. Forse Berlusconi preferisce che si parli di qualche morto a Bengasi piuttosto che dell'avvocato Mills o del disastro economico in cui ha precipitato il Paese, e dunque la strategia è sempre quella: se c'è un fuocherello si appicca l'incendio, se c'è l'incendio si brucia tutta la prateria. E quelli che ci abitano, in questa prateria, cazzi loro: dopotutto, sono soltanto semplici italiani.