Gli accordi con Tripoli contengono aspetti oscuri e disumani. perchè il Pd, tranne pochi, ha votato con la destra ?
Devo rendere conto ai lettori di fatto nuovo e sorprendente avvenuto alla Camera dei Deputati nei giorni 20 e 21 gennaio. Per la prima volta il Partito Democratico ha annunciato di votare insieme alla maggioranza di destra, e lo ha fatto. Per la prima volta - come ha scritto il 22 gennaio questo giornale - nelle file del Pd ci sono stati due voti contro (quello di Andrea Sarubbi e il mio) e ventiquattro astensioni, tra cui un ministro ombra (Lanzillotta).I'Unità dice, in un altro punto dell'articolo, che "i radicali sono stati protagonisti di una battaglia ostruzionistica". È bene ricordare che i deputati radicali Mecacci, Bernardini, Zamparutti, Farina-Coscioni, Turco, sono stati eletti nelle liste del Pd, dunque i loro voti “contro" sono i voti di una parte del Pd. A quell'ostruzionismo mi sono unito fin dall'inizio aggiungendo la mia firma in calce ai seimila emendamenti, tutti sensati e tutti necessari, che hanno fatto luce su un confronto che, altrimenti, sarebbe avvenuto alla cieca.
Nel silenzio un po' disorientante di quasi tutto il Pd (salvo pochi deputati come Paolo Corsini, perplesso, Enzo Carra, entusiasta, Tempestini, per un elogio a Gheddafi, Maran per una descrizione tecnica del trattato) insieme ai radicali ho parlato su centinaia di emendamenti tentando, centinaia di volte, di spiegare perché l'esortazione iniziale di Massimo D'Alema a votare «sÌ" (che molti hanno accettato come un ordine) poneva problemi politici, problemi giuridici e problemi morali che sarebbe stato impossibile ignorare.
Ma ecco le ragioni del no, tutte gravi, tutte sollevate per tempo dai radicali e da alcuni di noi fin dal dibattito in commissione, e tutte lasciate cadere nel silenzio dell'Aula per raggiungere un “si" congiunto con il Pdl e la Lega su un argomento che ha imbarazzato e indotto a dissociarsi molti deputati del centrodestra, da Giorgio La Malfa all' ex ministro degli Esteri Antonio Martino. E ha motivato Italia dei Valori e Udc (oratore decisamente avverso e appassionato Rocco Buttiglione) a votare contro, lasciando solo al Pd l'iniziativa del triste abbraccio con la destra e con Gheddafi.
1. Il trattato con la Libia non è un trattato di amicizia ma un trattato militare. Prevede azioni militari e manovre congiunte, scambi di informazioni militari e della tecnologia più avanzata, l'impegno (non reciproco) a non usare basi militari italiane o Nato contro la Libia, in nessun caso, qualunque sia l'evento. Stabilisce il pattugliamento congiunto (soldati italiani con soldati libici) del confine Libia-Ciad, confine immenso, incerto e disputato sia dal Ciad che dalla Francia.
2. Il trattato con la Libia non è un trattato di amicizia ma un trattato d'affari con aspetti oscuri. Stabilisce che “società italiane" non meglia identificate (aste? appalti? concorsi? scelta arbitraria?) organizzeranno il monitoraggio elettronico del confine Ciad-Libia, stipula un versamento di somme immense da parte italiana, nel peggior periodo dell'economia italiana e mondiale: 200 milioni di dollari dall'Italia alla Libia ogni anno per venti anni, senza alcuna possibilità dell'Italia di uscire dall'impegno, qualunque cosa accada. Il trattato, infatti, non prevede alcuna clausola di preavviso o di scioglimento.
3. Il trattato con la Libia è iniquo e disumano, specialmente mentre il mondo entra nell' era di Obama, perché prescrive che la forza congiirnta degli apparati militari dei due paesi si abbatta non sui "mercanti di schiavi", che organizzano le tratte dei disperati e che certo non si fanno trovare nel deserto, ma sugli schiavi che riescono a giungere vivi ai confini del Ciad oppure che riescono a mettersi in mare, e che potranno essere “fermati" (è un eufemismo) molto prima che si avvicinino alle coste italiane.
4. Il trattato con la Libia è fuori dalla Costituzione italiana, fuori dalla Convenzione di Ginevra, fuori dalla Carta dei Diritti dell'uomo, fuori dalle prescrizioni delle Nazioni Unite sui diritti dei rifugiati. Per esempio questo trattato rende impossibile ogni tentativo di rispettare il diritto di asilo dei profughi intercettati.
La storia finisce qui, con l'inspiegabile offerta del Pd di votare insieme al Pdl un trattato che - a parte la Lega - è stato giudicato inaccettabile da rilevanti figure del Centrodestra.
Alla Camera dei Deputati chi vota in dissenso ha soltanto un minuto di tempo per esprimere, in conclusione, quel dissenso. La vice-presidente Bindi, che dirigeva i lavori d'Aula in quel momento, mi ha chiuso il microfono esattamente alla fine del minuto, prima che potessi finire la frase. La frase completa sarebbe stata questa: "Sono io - e il deputato Sarubbi, e i radicali eletti nel Pd - in dissenso con questo partito, o è questo partito che è in dissenso con se stesso e con i suoi elettori?".
furiocolombo@unita.it
27 gennaio 2009
25 gennaio 2009
Il 2009: l’annus horribilis del Cavaliere?
Curzio Maltese il Venerdì di Repubblica 9 gennaio 2009
Dall'epoca delle signorie, in Italia chi esibisce potere trova consenso. È il pedaggio storico di un Paese che ospita la principale scuola di conformismo della storia, il papato.
Questa meccanica spiega molto della storia nazionale, anche recente. Il problema del Pd oggi non è la questione morale, ma l'impotenza politica. Veltroni incarna una leadership popolare, ma debole. Nella crisi, dovrebbe imporre una linea, dall'alto del plebiscito delle primarie, e invece si costringe a mediare con chiunque. Non riesce a ottenere le dimissioni di un Bassolino o di una Iervolino, l'allontanamento di un Latorre, la rimozione dell'abusivo Villari, deve trattare all'interno e all'esterno, con D'Alema e con Di Pietro, con Berlusconi e gli antiberlusconiani, con la Binetti e con i radicali. Uno strazio. Eppure, non esistono alternative credibili, a cominciare dall'unica seria.
D'Alema è percepito come uomo forte da chi non lo vota, l'elettorato della destra. Nella base del centrosinistra è considerato debole, e non a torto. Nel '95 aveva l'occasione di togliere all'avversario il suo principale strumento di potere, le televisioni. Qualsiasi professionista della politica non avrebbe esitato. L'avesse fatto, oggi sarebbe al Quirinale. Invece s'è inventato la Bicamerale, ottenendo per sé un annetto di Palazzo Chigi e per gli italiani altri vent'anni di berlusconismo.
AI contrario, Berlusconi oggi irradia un immagine regale. Decide tutto, comanda tutti. Vuole essere incoronato presidente dal popolo. Ha schiantato la magistratura, che gli italiani sostenevano quando sembrava onnipotente e non per adesione alla questione morale. Il premier appare oggi invincibile. :Ma è solo un'immagine che serve a mascherare enormi debolezze.
Il suo governo è assai mediocre e i cittadini iniziano a capirlo. La sua credibilità internazionale è zero. Finita l'era Bush, Berlusconi è considerato dai grandi leader mondiali una specie di informatore di Putin, un interiocutore fastidioso e imbarazzante. «Un sinistro pagliaccio» nella sintesi del Financial Times.
Se l'opposizione vera è allo sbando, quella interna alla destra cresce, Fini si smarca, Bossi impone veti. È l'ultimo l'elemento più pericoloso. Se domani Berlusconi sparisse, la Lega raddoppierebbe i voti. Il Cavaliere sarebbe ancora in grado di superare tutte queste difficoltà, se non si trovasse a gestire una crisi economica epocale, per cui non trova rimedi e neppure parole. Mi sbaglierò, ma per lui il 2009 sarà un anno orribile.
Dall'epoca delle signorie, in Italia chi esibisce potere trova consenso. È il pedaggio storico di un Paese che ospita la principale scuola di conformismo della storia, il papato.
Questa meccanica spiega molto della storia nazionale, anche recente. Il problema del Pd oggi non è la questione morale, ma l'impotenza politica. Veltroni incarna una leadership popolare, ma debole. Nella crisi, dovrebbe imporre una linea, dall'alto del plebiscito delle primarie, e invece si costringe a mediare con chiunque. Non riesce a ottenere le dimissioni di un Bassolino o di una Iervolino, l'allontanamento di un Latorre, la rimozione dell'abusivo Villari, deve trattare all'interno e all'esterno, con D'Alema e con Di Pietro, con Berlusconi e gli antiberlusconiani, con la Binetti e con i radicali. Uno strazio. Eppure, non esistono alternative credibili, a cominciare dall'unica seria.
D'Alema è percepito come uomo forte da chi non lo vota, l'elettorato della destra. Nella base del centrosinistra è considerato debole, e non a torto. Nel '95 aveva l'occasione di togliere all'avversario il suo principale strumento di potere, le televisioni. Qualsiasi professionista della politica non avrebbe esitato. L'avesse fatto, oggi sarebbe al Quirinale. Invece s'è inventato la Bicamerale, ottenendo per sé un annetto di Palazzo Chigi e per gli italiani altri vent'anni di berlusconismo.
AI contrario, Berlusconi oggi irradia un immagine regale. Decide tutto, comanda tutti. Vuole essere incoronato presidente dal popolo. Ha schiantato la magistratura, che gli italiani sostenevano quando sembrava onnipotente e non per adesione alla questione morale. Il premier appare oggi invincibile. :Ma è solo un'immagine che serve a mascherare enormi debolezze.
Il suo governo è assai mediocre e i cittadini iniziano a capirlo. La sua credibilità internazionale è zero. Finita l'era Bush, Berlusconi è considerato dai grandi leader mondiali una specie di informatore di Putin, un interiocutore fastidioso e imbarazzante. «Un sinistro pagliaccio» nella sintesi del Financial Times.
Se l'opposizione vera è allo sbando, quella interna alla destra cresce, Fini si smarca, Bossi impone veti. È l'ultimo l'elemento più pericoloso. Se domani Berlusconi sparisse, la Lega raddoppierebbe i voti. Il Cavaliere sarebbe ancora in grado di superare tutte queste difficoltà, se non si trovasse a gestire una crisi economica epocale, per cui non trova rimedi e neppure parole. Mi sbaglierò, ma per lui il 2009 sarà un anno orribile.
L’equivoco del PD sul significato del riformismo
Venerdì di Repubblica 27 12 2008 di Curzio Maltese
L'imminente collasso del Pd è inevitabile? Forse no, ma quasi di sicuro nessuno si muoverà per evitarlo. Il fatalismo sembra l'ultimo «ismo» rimasto alla sinistra. La situazione è chiara da tempo. Con questo gruppo dirigente, come diceva anni Moretti, non si vincerà mai più. Questa almeno è la convinzione di milioni di elettori del centrosinistra, che non andranno più a votare finché non vedranno all'opera un partito nuovo nei fatti e non a parole.
La profezia di Moretti nel 2002 fu rovesciata dal risultato elettorale del 2006, ma solo in parte. In realtà per la seconda volta un centrosinistra votato alla sconfitta s'imbattè in quel singolare outsider vincente ch'era Romano Prodi. E per la seconda volta lo fece fuori in breve tempo. Lasciata sola a se stessa, la nomenclatura ereditata da Pci e Dc ha finito per riproporre un vuoto d'idee nel quale avanzano carrierismi spregiudicati.
L'identità riformista del Pd è rimasta sulla carta. Gli ex pci e dc ne hanno sempre avuta un'idea vaga. Per loro il riformismo non significa progettare riforme, impresa titanica in Italia, ma assumere un atteggiamento moderato, non entrare in polemica con l'avversario, con la Chiesa e con i poteri forti, irridere alla questione morale e disprezzare ogni forma di radicalismo. È una visione un tantino macchiettistica Un po' come quando gli attori italiani, per recitare i testi anglosassoni, indossano il foulard, si yersano un whisky ed e esclamano «caspita!». Oppure come quando Bertinotti e Sansonetti interpretano l'antagonismo sociale nei salotti televisivi, con i noti esiti.
Il calcolo della nomenclatura di centro sinistra era di trattare con Berlusconi come con la Dc di una volta. Con la differenza che il berlusconismo non è la Dc, è eversivo e ora apertamente anticostituzionale. Senza contare che nell'ultimo mezzo secolo il mondo è un po' cambiato.
D'altra parte non si può pretendere che i vecchi funzionari di partito, dopo aver cambiato cento sigle, mutino davvero il proprio codice genetico. L'unica possibilità è mandarli a casa è costruire un partito nuovo. Era il progetto originario del Pd, ma ha resistito pochi mesi. Come si può convincere gli elettori d'esser capaci di riformare la società quando non si è in grado di riformare se stessi?
Oggi il Pd può scegliere se scaricare gli oligarchi locali da solo e da subito, o aspettare che lo facciano gli elettori. Si potrebbe, una volta, fare una cosa di sinistra?
L'imminente collasso del Pd è inevitabile? Forse no, ma quasi di sicuro nessuno si muoverà per evitarlo. Il fatalismo sembra l'ultimo «ismo» rimasto alla sinistra. La situazione è chiara da tempo. Con questo gruppo dirigente, come diceva anni Moretti, non si vincerà mai più. Questa almeno è la convinzione di milioni di elettori del centrosinistra, che non andranno più a votare finché non vedranno all'opera un partito nuovo nei fatti e non a parole.
La profezia di Moretti nel 2002 fu rovesciata dal risultato elettorale del 2006, ma solo in parte. In realtà per la seconda volta un centrosinistra votato alla sconfitta s'imbattè in quel singolare outsider vincente ch'era Romano Prodi. E per la seconda volta lo fece fuori in breve tempo. Lasciata sola a se stessa, la nomenclatura ereditata da Pci e Dc ha finito per riproporre un vuoto d'idee nel quale avanzano carrierismi spregiudicati.
L'identità riformista del Pd è rimasta sulla carta. Gli ex pci e dc ne hanno sempre avuta un'idea vaga. Per loro il riformismo non significa progettare riforme, impresa titanica in Italia, ma assumere un atteggiamento moderato, non entrare in polemica con l'avversario, con la Chiesa e con i poteri forti, irridere alla questione morale e disprezzare ogni forma di radicalismo. È una visione un tantino macchiettistica Un po' come quando gli attori italiani, per recitare i testi anglosassoni, indossano il foulard, si yersano un whisky ed e esclamano «caspita!». Oppure come quando Bertinotti e Sansonetti interpretano l'antagonismo sociale nei salotti televisivi, con i noti esiti.
Il calcolo della nomenclatura di centro sinistra era di trattare con Berlusconi come con la Dc di una volta. Con la differenza che il berlusconismo non è la Dc, è eversivo e ora apertamente anticostituzionale. Senza contare che nell'ultimo mezzo secolo il mondo è un po' cambiato.
D'altra parte non si può pretendere che i vecchi funzionari di partito, dopo aver cambiato cento sigle, mutino davvero il proprio codice genetico. L'unica possibilità è mandarli a casa è costruire un partito nuovo. Era il progetto originario del Pd, ma ha resistito pochi mesi. Come si può convincere gli elettori d'esser capaci di riformare la società quando non si è in grado di riformare se stessi?
Oggi il Pd può scegliere se scaricare gli oligarchi locali da solo e da subito, o aspettare che lo facciano gli elettori. Si potrebbe, una volta, fare una cosa di sinistra?
Il sogno (impossibile?) di un Obama italiano
di Curzio Maltese da Venerdì di Repubblica
Potrà esserci un giorno un Obama italiano? Chiedono i lettori. In questi casi, la domanda vale più della risposta, ovvia: no. Sarebbe già un miracolo dare i diritti di cittadinanza ai figli di immigrati nati e cresciuti qui. Quindi aspettare con fiducia una ventina d'anni. La selezione del ceto politico italiano segue regole chiuse e difficili da scardinare.
Fin da bambino ascolto la lagna generale sul fatto che «si vedono sempre le stesse facce in Parlamento». In concreto, gli italiani si sono liberati della Prima repubblica soltanto per gli scandali di Tangentopoli. La circostanza che Andreotti, Craxi e Forlani avessero moltiplicato per otto il debito pubblico in quindici anni, catastrofe che pagheremo per tutta la viat noi e i nostri figli, non costituiva evidemente un motivo sufficiente per mandarli a casa con il voto.
Dopo è cominciata la stagione di Berlusconi, creatura prediletta della Prima repubblica, e non se ne vede la fine. A sinistra è successo che personaggi di seconda e terza fila abbiano preso il posto cui erano destinati fm dalla scuola materna. Ora a destra la formazione della nuova classe dirigente avviene per scelta diretta del capo, con i noti criteri personalissimi che hanno portato alle nomine dei vari Bondi e Gelmini.
La vittoria di Obama, come quella di altri leader di questi anni, ma in maniera ancora più clamorosa, non è tanto la vittoria di una politica quanto quella di una storia umana. La vita di Barack Obama è un raccomo formidabile. Ed è il racconto di una comunità fondata sulla speranza e sulle opportunità per tutti. La storia personale dei personaggi politici italiani è a1trettanto significativa della comunità cui apparteniamo. Una comunità dove la mobilità sociale è azzerata e la principale risorsa di un giovane rimane la famiglia o il clan d'appartenenza. Ma, diciamo la verità una storia un po' meno entusiasmante.
In giro per l'Italia s'incontrano storie personali meravigliose e giovani di grande talento, fra i quali potrebbe esserci un Obama italiano. Ma attrav so quali canali questi talenti potrebbero essere messi al servizio della collettività? È già un'impresa che trovino un lavoro o vincano un concorso truccato da qualche barone di provincia per infilare un parente.
Però la domanda di speranza rimane più importante della risposta realistica. Chissà che, cominciando a fare i conti con i veri problemi, all'improviso il vento non cambi.
Potrà esserci un giorno un Obama italiano? Chiedono i lettori. In questi casi, la domanda vale più della risposta, ovvia: no. Sarebbe già un miracolo dare i diritti di cittadinanza ai figli di immigrati nati e cresciuti qui. Quindi aspettare con fiducia una ventina d'anni. La selezione del ceto politico italiano segue regole chiuse e difficili da scardinare.
Fin da bambino ascolto la lagna generale sul fatto che «si vedono sempre le stesse facce in Parlamento». In concreto, gli italiani si sono liberati della Prima repubblica soltanto per gli scandali di Tangentopoli. La circostanza che Andreotti, Craxi e Forlani avessero moltiplicato per otto il debito pubblico in quindici anni, catastrofe che pagheremo per tutta la viat noi e i nostri figli, non costituiva evidemente un motivo sufficiente per mandarli a casa con il voto.
Dopo è cominciata la stagione di Berlusconi, creatura prediletta della Prima repubblica, e non se ne vede la fine. A sinistra è successo che personaggi di seconda e terza fila abbiano preso il posto cui erano destinati fm dalla scuola materna. Ora a destra la formazione della nuova classe dirigente avviene per scelta diretta del capo, con i noti criteri personalissimi che hanno portato alle nomine dei vari Bondi e Gelmini.
La vittoria di Obama, come quella di altri leader di questi anni, ma in maniera ancora più clamorosa, non è tanto la vittoria di una politica quanto quella di una storia umana. La vita di Barack Obama è un raccomo formidabile. Ed è il racconto di una comunità fondata sulla speranza e sulle opportunità per tutti. La storia personale dei personaggi politici italiani è a1trettanto significativa della comunità cui apparteniamo. Una comunità dove la mobilità sociale è azzerata e la principale risorsa di un giovane rimane la famiglia o il clan d'appartenenza. Ma, diciamo la verità una storia un po' meno entusiasmante.
In giro per l'Italia s'incontrano storie personali meravigliose e giovani di grande talento, fra i quali potrebbe esserci un Obama italiano. Ma attrav so quali canali questi talenti potrebbero essere messi al servizio della collettività? È già un'impresa che trovino un lavoro o vincano un concorso truccato da qualche barone di provincia per infilare un parente.
Però la domanda di speranza rimane più importante della risposta realistica. Chissà che, cominciando a fare i conti con i veri problemi, all'improviso il vento non cambi.
Il paese che affonda mentre il premier fa cucù
d Curzio Maltese da venerdì di Repubblica
NeI bene o nel male, le grandi crisi come quella che viviamo hanno il paradossale vantaggio di mobilitare le energie migliori delle società e delle classi diligenti. Il '29 tanto spesso evocato avviò anche cambiamenti positivi, fecondò creazioni grandiose come il Welfare.
L'America con l'elezione di Barack Obama ha dato ancora una volta il segnale al resto del mondo, la speranza e la necessità di un cambiamento radicale nel modo di far politica rispetto al comitato d'affalÌ imperiale dei Bush. Il passo pesante della storia si sente anche nei vertici europei, nella solennità dei discorsi e delle scelte di Merkel, Sarkozy, Zapatero, Brown. Il nostro premier è quello che fa cucù. È quello che consiglia di correre al più vicino supermercato e vuotare gli scaffali, non si sa con quali soldi, così la crisi passa subito. Ricorda un verso di una canzone di Jannacci: Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh yes.
L'Italia dovrebbe essere il Paese più preoccupato e quindi impegnato sul fronte del cambiamento. In nessun altro Paese ricco è attesa una recessione tanto lunga e dura. I segni si avvertono girando per le città. Neppure negli anni di piombo o in quelli più bui delle ristrutturazioni industliali s'era vista tanta depressione a Torino, la città più manifatturiera d'Italia, da sempre convinta che ci sarebbe stato un «dopo» per tutto. Oggi questa fiducia nel dopo non esiste più, la Fiat manda in cassa integrazione, ma anche lo stabilimento Motorola chiude i cancelli. Dove si troverà lavoro?
Si avverte la crisi nella serietà dell'Onda, il movimento studentesco meno ludico della storia dei movimenti giovanili. I sessantottini, gli indiani metropolitani del '77 tutto sommato si concedevano il lusso di una ribellione contro una società affluente. Questi lottano per la riconquista di una dignità del vivere quotidiano, negata alle nuove generazioni.
Nella crisi soltanto i palazzi del potere restano immobili. Stesse facce, stessi discorsi, identiche pagliacciate. La Rai rischia di dover licenziare migliaia di persone. Ma quelli tramano per mesi intorno a una singola poltrona e alla fine la spunta, almeno per un po', un tal Villali che sembra uscito dalla commedia all'italiana d'altri tempi. Bisogna ridere? Ridere anche delle improbabili trovate governative per risolvere con un colpo di bacchetta problemi mondiali annunciate la sera stessa al talk show di turno? Una risata alla fine ci ( e non vi) seppellirà?
NeI bene o nel male, le grandi crisi come quella che viviamo hanno il paradossale vantaggio di mobilitare le energie migliori delle società e delle classi diligenti. Il '29 tanto spesso evocato avviò anche cambiamenti positivi, fecondò creazioni grandiose come il Welfare.
L'America con l'elezione di Barack Obama ha dato ancora una volta il segnale al resto del mondo, la speranza e la necessità di un cambiamento radicale nel modo di far politica rispetto al comitato d'affalÌ imperiale dei Bush. Il passo pesante della storia si sente anche nei vertici europei, nella solennità dei discorsi e delle scelte di Merkel, Sarkozy, Zapatero, Brown. Il nostro premier è quello che fa cucù. È quello che consiglia di correre al più vicino supermercato e vuotare gli scaffali, non si sa con quali soldi, così la crisi passa subito. Ricorda un verso di una canzone di Jannacci: Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh yes.
L'Italia dovrebbe essere il Paese più preoccupato e quindi impegnato sul fronte del cambiamento. In nessun altro Paese ricco è attesa una recessione tanto lunga e dura. I segni si avvertono girando per le città. Neppure negli anni di piombo o in quelli più bui delle ristrutturazioni industliali s'era vista tanta depressione a Torino, la città più manifatturiera d'Italia, da sempre convinta che ci sarebbe stato un «dopo» per tutto. Oggi questa fiducia nel dopo non esiste più, la Fiat manda in cassa integrazione, ma anche lo stabilimento Motorola chiude i cancelli. Dove si troverà lavoro?
Si avverte la crisi nella serietà dell'Onda, il movimento studentesco meno ludico della storia dei movimenti giovanili. I sessantottini, gli indiani metropolitani del '77 tutto sommato si concedevano il lusso di una ribellione contro una società affluente. Questi lottano per la riconquista di una dignità del vivere quotidiano, negata alle nuove generazioni.
Nella crisi soltanto i palazzi del potere restano immobili. Stesse facce, stessi discorsi, identiche pagliacciate. La Rai rischia di dover licenziare migliaia di persone. Ma quelli tramano per mesi intorno a una singola poltrona e alla fine la spunta, almeno per un po', un tal Villali che sembra uscito dalla commedia all'italiana d'altri tempi. Bisogna ridere? Ridere anche delle improbabili trovate governative per risolvere con un colpo di bacchetta problemi mondiali annunciate la sera stessa al talk show di turno? Una risata alla fine ci ( e non vi) seppellirà?
L’ossessione dei “rossi” dopo il crollo del Muro
L’ossessione dei “rossi” dopo il crollo del Muro
di Curzio Maltese da Venerdì di Repubblica
Non si riesce a leggere la millecinquecentesima tirata contro il comunismo di Ernesto Galli Della Loggia dalle colonne del Corriere senza trattenere un sorriso. Non di derisione, ci mancherebbe: di tenerezza. Con giovanile e dunque invidiabile impeto ideologico, il professore va a caccia di comunisti sopravvissuti e li trova nei più distanti angoli della società, fra gli studenti dell'Onda e ai cancelli delle fabbriche, fra i piloti AlitaJia e nelle scuole elementari, nel sindacato e ai vertici della finanza bancarottiera.
È la scena di un film, quando il vecchio John Wayne si volta verso il suo soldato: «Siamo circondati, rossi dappertutto!». Forse è un comunista anche mio figlio di sei anni, che ha partecipato a una fiaccolata di protesta contro la Gelmini, con la mamma e le maestre (ancora due). Sarebbe divertente, se l'ossessione non fosse diffusa fra milioni e milioni, probabilmente la maggioranza, di italiani. In tanti anni di lavoro, fra le migliaia di lettere e messaggi ricevuti da lettori di destra, il numero di quelli che non si chiudevano con l'accusa definitiva di «comunista» si possono contare slùle dita di una mano. Continua a farmi effetto. Non tanto perché non sono mai stato comunista, a differenza di molti degli attuali servi del Cavaliere e del suo idolo politico Putin, quanto perché non riesco a considerarlo un insulto. D'altra parte, la più bella poesia sul perché «qualcuno era comunista» l'ha scritta un libertario, Giorgio Gaber.
Oltre l'ossessione, c'è un problema gigantesco della società italiana. L'anticomunismo è stato per novant'anni l'unico vero collante della borghesia italiana, il suo alibi universale. Vent'anni fa il comunismo è morto, ma l'anticomunismo ha continuato a vivere in un Paese solo, l'Italia, grazie a Silvio Berlusconi e perché non s'è trovata un'alternativa, un altro valore condiviso.
Un giorno finirà anche Berlusconi e il giorno successivo forse finirà anche il dominio degli ex comunisti sul centrosinistra. A quel punto che cosa può succedere? Una crisi d'identità mostruosa, con due possibili sbocchi. Un nuovo patto civile e democratico condiviso, oppure l'esplosione di un conflitto anarchico fra le mille componenti dei ceti medi, un caos di difficile soluzione. «Attenti a festeggiare» disse il vecchio Giulio Andreotti quando crollò il Muro di Berlino, «vi eravamo aggrappati tutti». Il problema è che vi siamo aggrappati ancora oggi. A un Muro che non esiste più.
di Curzio Maltese da Venerdì di Repubblica
Non si riesce a leggere la millecinquecentesima tirata contro il comunismo di Ernesto Galli Della Loggia dalle colonne del Corriere senza trattenere un sorriso. Non di derisione, ci mancherebbe: di tenerezza. Con giovanile e dunque invidiabile impeto ideologico, il professore va a caccia di comunisti sopravvissuti e li trova nei più distanti angoli della società, fra gli studenti dell'Onda e ai cancelli delle fabbriche, fra i piloti AlitaJia e nelle scuole elementari, nel sindacato e ai vertici della finanza bancarottiera.
È la scena di un film, quando il vecchio John Wayne si volta verso il suo soldato: «Siamo circondati, rossi dappertutto!». Forse è un comunista anche mio figlio di sei anni, che ha partecipato a una fiaccolata di protesta contro la Gelmini, con la mamma e le maestre (ancora due). Sarebbe divertente, se l'ossessione non fosse diffusa fra milioni e milioni, probabilmente la maggioranza, di italiani. In tanti anni di lavoro, fra le migliaia di lettere e messaggi ricevuti da lettori di destra, il numero di quelli che non si chiudevano con l'accusa definitiva di «comunista» si possono contare slùle dita di una mano. Continua a farmi effetto. Non tanto perché non sono mai stato comunista, a differenza di molti degli attuali servi del Cavaliere e del suo idolo politico Putin, quanto perché non riesco a considerarlo un insulto. D'altra parte, la più bella poesia sul perché «qualcuno era comunista» l'ha scritta un libertario, Giorgio Gaber.
Oltre l'ossessione, c'è un problema gigantesco della società italiana. L'anticomunismo è stato per novant'anni l'unico vero collante della borghesia italiana, il suo alibi universale. Vent'anni fa il comunismo è morto, ma l'anticomunismo ha continuato a vivere in un Paese solo, l'Italia, grazie a Silvio Berlusconi e perché non s'è trovata un'alternativa, un altro valore condiviso.
Un giorno finirà anche Berlusconi e il giorno successivo forse finirà anche il dominio degli ex comunisti sul centrosinistra. A quel punto che cosa può succedere? Una crisi d'identità mostruosa, con due possibili sbocchi. Un nuovo patto civile e democratico condiviso, oppure l'esplosione di un conflitto anarchico fra le mille componenti dei ceti medi, un caos di difficile soluzione. «Attenti a festeggiare» disse il vecchio Giulio Andreotti quando crollò il Muro di Berlino, «vi eravamo aggrappati tutti». Il problema è che vi siamo aggrappati ancora oggi. A un Muro che non esiste più.
24 gennaio 2009
Fred Vargas: «Difendo Cesare Battisti, è stato lasciato solo»
di Beppe Sebaste
l'Unità 16 gennaio 2009
Quando in Francia si accorse di essere stato condannato al carcere a vita, e che tutte le colpe e gli omicidi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) gli erano stati buttati addosso, Cesare Battisti era incredulo. Non è vero che era scappato per non essere giudicato, fu giudicato (e condannato a 12 anni di carcere per banda armata) nel 1981, e trasferito nel carcere di Frosinone, non a caso destinato a chi non fosse colpevole di crimini che avessero comportato la morte di persone. Evase dalla pena, non dal giudizio. Il processo successivo si svolse in contumacia. Battisti passò da un incubo all’altro, in una trappola senza uscita, da quella dei Pac e della lotta armata - da cui uscì e si dissociò già nel 1978 – a quella di un processo kafkiano che lo condannò all’ergastolo sulla base di testimonianze di pentiti – i capi dei Pac Pietro Mutti e Arrigo Cavallina – che addossarono a lui assente ogni colpa ed ebbero una condanna di 15 anni. Messi insieme, tutti gli elementi di dubbio fanno una montagna. E pochi ricordano che Battisti si è sempre detto innocente dei delitti di cui è stato condannato».A parlare così – accettando di camminare su un campo minato oggi in Italia - è la scrittrice Fred Vargas, i cui romanzi polizieschi, brillanti e innovativi, sono molto noti e apprezzati anche in Italia. Ma Fred Vargas è anche una ricercatrice e studiosa di archeologia e paleontologia (precisamente è archeozoologa), abituata a cercare con ostinazione verità storiche con un paziente lavoro di scavo, reperimento, concatenazione di frammenti, infine ricomposizione di un senso come un puzzle. Con questo spirito si è dedicata da anni alla ricostruzione di un’altra verità storico-giuridica su Cesare Battisti, dedicando un libro alle sue vicende processuali. A Parigi Battisti si era rifatto una vita (ha due figlie, una di tredici, l’altra di ventitrè anni) indossando il fragile abito di rifugiato politico (oggi in via di estinzione oltralpe), e diventando a sua volta autore di romanzi. Fred Vargas si è prodigata affinché, in nome della legislazione francese, fosse negata la sua estradizione in Italia. Mentre la Francia ne decideva l’estradizione, Battisti scappò in Brasile. Successivamente arrestato, il ministro della Giustizia di quel Paese, in nome dell’articolo 5 della Costituzione brasiliana, gli ha ora accordato l’asilo politico. Di fronte al coro unanime e compatto di condanna per questa decisione, la posizione garantista di Fred Vargas è assai isolata.Quali sono le sue contro-verità?«Innanzitutto confesso che mi è molto difficile parlare senza la paura di offendere la sensibilità degli Italiani. Non sono in nessun modo contro l’Italia, Paese che amo molto, e piango ogni vittima della violenza politica. Odio ogni violenza e non sono una paladina della sinistra estrema. Credo però che la decisione del ministro della Giustizia del Brasile sia onesta, giusta, coraggiosa e umana. Tiene conto dei diritti giuridici, ma anche dello stato di malattia di Battisti, attualmente distrutto. Per quanto riguarda i diritti, anzi il Diritto, molti insigni giuristi brasiliani – posso citare Dalmo Dallari e Milo Batista, oltre al senatore Edoardo Suplici – hanno sollevato, convincendosi della sua innocenza. Così come il ministro dei Diritti umani del Brasile, Paolo Vanucci. La condanna inflitta a Cesare Battisti non solo fu senza prove effettive e sulla base di testimonianze contraddittorie, oltre all’eccessivo peso dato ai pentiti; ma si svolse in contumacia, in assenza dell’imputato, che non ha quindi potuto difendersi».Come sarebbe potuto accadere?«Per renderlo regolare furono prodotti tre mandati, cioè tre lettere di incarico agli avvocati per rappresentarlo, a firma di Cesare Battisti: due con data 1982, una 1990. Qui interviene il mio mestiere di storica e di ricercatrice. Ho potuto dimostrare che si tratta di falsi, contraffazioni anche goffe della sua scrittura e della sua firma ottenute tramite il calco per trasparenza di una lettera precedente dal Messico. Si riconosce in tutte l’identico modello, e che le firme sono state eseguite nello stesso breve lasso di tempo. Risparmio i dettagli tecnici. Il fatto è che senza quelle lettere il processo non si sarebbe potuto svolgere. Di questo e di altri aspetti della vicenda processuale di Battisti ho parlato col Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, e anche con l’ambasciatore italiano, persona squisita. Quest’ultimo mi ha detto di essere stato turbato, come uomo, dalla mia ricostituzione dei fatti, ma che come ambasciatore non poteva che richiedere l’estradizione di Battisti. Il mio mestiere è la verità, non mi interessa difendere un’ideologia, né la sinistra estrema. Scavo la terra, dai frammenti restituisco la verità storica. Ho studiato per oltre dieci anni la propagazione della peste nel Medio Evo, un lavoro in cui non ci si può sbagliare nemmeno di un bacillo, dove occorre analizzare l’interno di una pulce. Il mio mestiere non è credere a qualcosa, ma cercare e trovare la verità. E’ quello che ho fatto anche con i pezzi di carta della vicenda Battisti».Ma lo status di rifugiato accordato a Battisti ha una motivazione soprattutto politica...«C’è indubbiamente un risvolto politico, e non perché qualcuno simpatizzi con le motivazioni politiche dei crimini che gli sono stati imputati. Cesare Battisti non fuggì la giustizia, nel 1981 fu giudicato e condannato. Ma i successivo processo rimanda alle leggi d’emergenza (o d’eccezione) che caratterizzarono quegli anni in Italia, e la memoria di quegli anni non viene affrontata in Italia col giusto sguardo (mentre il Brasile è molto sensibile al tema dell’amnistia). Rivedere, rimettere in discussione le modalità di quel processo significherebbe rimettere in discussione molti degli eventi giuridico-politici degli anni ’70 in Italia. Questo è il senso politico, o l’altro dubbio, se vogliamo, che ha caratterizzato credo la scelta del Brasile della presunzione di innocenza di Battisti».
l'Unità 16 gennaio 2009
Quando in Francia si accorse di essere stato condannato al carcere a vita, e che tutte le colpe e gli omicidi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) gli erano stati buttati addosso, Cesare Battisti era incredulo. Non è vero che era scappato per non essere giudicato, fu giudicato (e condannato a 12 anni di carcere per banda armata) nel 1981, e trasferito nel carcere di Frosinone, non a caso destinato a chi non fosse colpevole di crimini che avessero comportato la morte di persone. Evase dalla pena, non dal giudizio. Il processo successivo si svolse in contumacia. Battisti passò da un incubo all’altro, in una trappola senza uscita, da quella dei Pac e della lotta armata - da cui uscì e si dissociò già nel 1978 – a quella di un processo kafkiano che lo condannò all’ergastolo sulla base di testimonianze di pentiti – i capi dei Pac Pietro Mutti e Arrigo Cavallina – che addossarono a lui assente ogni colpa ed ebbero una condanna di 15 anni. Messi insieme, tutti gli elementi di dubbio fanno una montagna. E pochi ricordano che Battisti si è sempre detto innocente dei delitti di cui è stato condannato».A parlare così – accettando di camminare su un campo minato oggi in Italia - è la scrittrice Fred Vargas, i cui romanzi polizieschi, brillanti e innovativi, sono molto noti e apprezzati anche in Italia. Ma Fred Vargas è anche una ricercatrice e studiosa di archeologia e paleontologia (precisamente è archeozoologa), abituata a cercare con ostinazione verità storiche con un paziente lavoro di scavo, reperimento, concatenazione di frammenti, infine ricomposizione di un senso come un puzzle. Con questo spirito si è dedicata da anni alla ricostruzione di un’altra verità storico-giuridica su Cesare Battisti, dedicando un libro alle sue vicende processuali. A Parigi Battisti si era rifatto una vita (ha due figlie, una di tredici, l’altra di ventitrè anni) indossando il fragile abito di rifugiato politico (oggi in via di estinzione oltralpe), e diventando a sua volta autore di romanzi. Fred Vargas si è prodigata affinché, in nome della legislazione francese, fosse negata la sua estradizione in Italia. Mentre la Francia ne decideva l’estradizione, Battisti scappò in Brasile. Successivamente arrestato, il ministro della Giustizia di quel Paese, in nome dell’articolo 5 della Costituzione brasiliana, gli ha ora accordato l’asilo politico. Di fronte al coro unanime e compatto di condanna per questa decisione, la posizione garantista di Fred Vargas è assai isolata.Quali sono le sue contro-verità?«Innanzitutto confesso che mi è molto difficile parlare senza la paura di offendere la sensibilità degli Italiani. Non sono in nessun modo contro l’Italia, Paese che amo molto, e piango ogni vittima della violenza politica. Odio ogni violenza e non sono una paladina della sinistra estrema. Credo però che la decisione del ministro della Giustizia del Brasile sia onesta, giusta, coraggiosa e umana. Tiene conto dei diritti giuridici, ma anche dello stato di malattia di Battisti, attualmente distrutto. Per quanto riguarda i diritti, anzi il Diritto, molti insigni giuristi brasiliani – posso citare Dalmo Dallari e Milo Batista, oltre al senatore Edoardo Suplici – hanno sollevato, convincendosi della sua innocenza. Così come il ministro dei Diritti umani del Brasile, Paolo Vanucci. La condanna inflitta a Cesare Battisti non solo fu senza prove effettive e sulla base di testimonianze contraddittorie, oltre all’eccessivo peso dato ai pentiti; ma si svolse in contumacia, in assenza dell’imputato, che non ha quindi potuto difendersi».Come sarebbe potuto accadere?«Per renderlo regolare furono prodotti tre mandati, cioè tre lettere di incarico agli avvocati per rappresentarlo, a firma di Cesare Battisti: due con data 1982, una 1990. Qui interviene il mio mestiere di storica e di ricercatrice. Ho potuto dimostrare che si tratta di falsi, contraffazioni anche goffe della sua scrittura e della sua firma ottenute tramite il calco per trasparenza di una lettera precedente dal Messico. Si riconosce in tutte l’identico modello, e che le firme sono state eseguite nello stesso breve lasso di tempo. Risparmio i dettagli tecnici. Il fatto è che senza quelle lettere il processo non si sarebbe potuto svolgere. Di questo e di altri aspetti della vicenda processuale di Battisti ho parlato col Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, e anche con l’ambasciatore italiano, persona squisita. Quest’ultimo mi ha detto di essere stato turbato, come uomo, dalla mia ricostituzione dei fatti, ma che come ambasciatore non poteva che richiedere l’estradizione di Battisti. Il mio mestiere è la verità, non mi interessa difendere un’ideologia, né la sinistra estrema. Scavo la terra, dai frammenti restituisco la verità storica. Ho studiato per oltre dieci anni la propagazione della peste nel Medio Evo, un lavoro in cui non ci si può sbagliare nemmeno di un bacillo, dove occorre analizzare l’interno di una pulce. Il mio mestiere non è credere a qualcosa, ma cercare e trovare la verità. E’ quello che ho fatto anche con i pezzi di carta della vicenda Battisti».Ma lo status di rifugiato accordato a Battisti ha una motivazione soprattutto politica...«C’è indubbiamente un risvolto politico, e non perché qualcuno simpatizzi con le motivazioni politiche dei crimini che gli sono stati imputati. Cesare Battisti non fuggì la giustizia, nel 1981 fu giudicato e condannato. Ma i successivo processo rimanda alle leggi d’emergenza (o d’eccezione) che caratterizzarono quegli anni in Italia, e la memoria di quegli anni non viene affrontata in Italia col giusto sguardo (mentre il Brasile è molto sensibile al tema dell’amnistia). Rivedere, rimettere in discussione le modalità di quel processo significherebbe rimettere in discussione molti degli eventi giuridico-politici degli anni ’70 in Italia. Questo è il senso politico, o l’altro dubbio, se vogliamo, che ha caratterizzato credo la scelta del Brasile della presunzione di innocenza di Battisti».
08 gennaio 2009
La Tv e lamanipolazione del consenso
Domanda
L’uomo comunissimo, quello che guarda certi programmi in televisione,
quello del bar sotto casa che, dopo un goccio, se la prende con tutti:
prostitute, gay, stranieri, perché così dimentica la propria miseria e la
propria nullità, sarà contento se ogni tanto si partorisce qualche leggina
razzista.
Risposta
Quella che lei propone inmodo così efficace, cara Teresa,
è la questione cruciale della politica da quando è stato introdotto il
suffragio universale. Se tutti possono votare e se i governi vengono eletti
da una maggioranza di quelli che votano, il rischio è continuamente
quello di una rivoluzione perché quelli che hanno di meno sono sempre
più numerosi di quelli che hanno di più. Indispensabile per i ceti dominanti
è, in queste condizioni, una propaganda capace di imbrogliare le
carte. Mantenendo al livello più basso possibile la consapevolezza dei
cittadini e/o promettendo il Paradiso di uno Stato che provvede a tutto
senza esigere tasse) ma soprattutto suscitando odio (razzista) contro
dei nemici direttamente collegati al Male del mondo (i Komunisti, gli
ebrei, l’Islam o gli emigrati). Sta nella capacità di usare in questo modo
tutta la potenza della televisione la genialità vera di Berlusconi che è, da
questo punto di vista un potente e pericolosissimo uomo di Stato. Sta
nell’incapacità di rispondergli sul suo terreno la difficoltà vera, al momento
difficilmente superabile, della sinistra italiana.
Luigi Cancrini
L'Unità mercoledì 7 gennaio 2009
L’uomo comunissimo, quello che guarda certi programmi in televisione,
quello del bar sotto casa che, dopo un goccio, se la prende con tutti:
prostitute, gay, stranieri, perché così dimentica la propria miseria e la
propria nullità, sarà contento se ogni tanto si partorisce qualche leggina
razzista.
Risposta
Quella che lei propone inmodo così efficace, cara Teresa,
è la questione cruciale della politica da quando è stato introdotto il
suffragio universale. Se tutti possono votare e se i governi vengono eletti
da una maggioranza di quelli che votano, il rischio è continuamente
quello di una rivoluzione perché quelli che hanno di meno sono sempre
più numerosi di quelli che hanno di più. Indispensabile per i ceti dominanti
è, in queste condizioni, una propaganda capace di imbrogliare le
carte. Mantenendo al livello più basso possibile la consapevolezza dei
cittadini e/o promettendo il Paradiso di uno Stato che provvede a tutto
senza esigere tasse) ma soprattutto suscitando odio (razzista) contro
dei nemici direttamente collegati al Male del mondo (i Komunisti, gli
ebrei, l’Islam o gli emigrati). Sta nella capacità di usare in questo modo
tutta la potenza della televisione la genialità vera di Berlusconi che è, da
questo punto di vista un potente e pericolosissimo uomo di Stato. Sta
nell’incapacità di rispondergli sul suo terreno la difficoltà vera, al momento
difficilmente superabile, della sinistra italiana.
Luigi Cancrini
L'Unità mercoledì 7 gennaio 2009
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