27 gennaio 2009

Trattato Libia: quattro ragioni per dire no.

Gli accordi con Tripoli contengono aspetti oscuri e disumani. perchè il Pd, tranne pochi, ha votato con la destra ?


Devo rendere conto ai lettori di fatto nuovo e sorprendente avvenuto alla Camera dei Deputati nei gior­ni 20 e 21 gennaio. Per la prima vol­ta il Partito Democratico ha annun­ciato di votare insieme alla maggio­ranza di destra, e lo ha fatto. Per la prima volta - come ha scritto il 22 gennaio questo giornale - nelle file del Pd ci sono stati due voti contro (quello di Andrea Sarubbi e il mio) e ventiquattro astensioni, tra cui un ministro ombra (Lanzillotta).I'Uni­tà dice, in un altro punto dell'artico­lo, che "i radicali sono stati protago­nisti di una battaglia ostruzionisti­ca". È bene ricordare che i deputati radicali Mecacci, Bernardini, Zam­parutti, Farina-Coscioni, Turco, so­no stati eletti nelle liste del Pd, dun­que i loro voti “contro" sono i voti di una parte del Pd. A quell'ostruzioni­smo mi sono unito fin dall'inizio ag­giungendo la mia firma in calce ai seimila emendamenti, tutti sensati e tutti necessari, che hanno fatto lu­ce su un confronto che, altrimenti, sarebbe avvenuto alla cieca.

Nel silenzio un po' disorientante di quasi tutto il Pd (salvo pochi de­putati come Paolo Corsini, perples­so, Enzo Carra, entusiasta, Tempe­stini, per un elogio a Gheddafi, Ma­ran per una descrizione tecnica del trattato) insieme ai radicali ho par­lato su centinaia di emendamenti tentando, centinaia di volte, di spie­gare perché l'esortazione iniziale di Massimo D'Alema a votare «sÌ" (che molti hanno accettato come un ordi­ne) poneva problemi politici, pro­blemi giuridici e problemi morali che sarebbe stato impossibile igno­rare.

Ma ecco le ragioni del no, tutte gravi, tutte sollevate per tempo dai radicali e da alcuni di noi fin dal di­battito in commissione, e tutte la­sciate cadere nel silenzio dell'Aula per raggiungere un “si" congiunto con il Pdl e la Lega su un argomento che ha imbarazzato e indotto a dis­sociarsi molti deputati del centrode­stra, da Giorgio La Malfa all' ex mini­stro degli Esteri Antonio Martino. E ha motivato Italia dei Valori e Udc (oratore decisamente avverso e ap­passionato Rocco Buttiglione) a vo­tare contro, lasciando solo al Pd l'iniziativa del triste abbraccio con la destra e con Gheddafi.

1. Il trattato con la Libia non è un trattato di amicizia ma un trattato militare. Prevede azioni militari e manovre congiunte, scambi di infor­mazioni militari e della tecnologia più avanzata, l'impegno (non reci­proco) a non usare basi militari ita­liane o Nato contro la Libia, in nes­sun caso, qualunque sia l'evento. Stabilisce il pattugliamento con­giunto (soldati italiani con soldati libici) del confine Libia-Ciad, confi­ne immenso, incerto e disputato sia dal Ciad che dalla Francia.

2. Il trattato con la Libia non è un trattato di amicizia ma un trattato d'affari con aspetti oscuri. Stabili­sce che “società italiane" non me­glia identificate (aste? appalti? con­corsi? scelta arbitraria?) organizze­ranno il monitoraggio elettronico del confine Ciad-Libia, stipula un versamento di somme immense da parte italiana, nel peggior periodo dell'economia italiana e mondiale: 200 milioni di dollari dall'Italia alla Libia ogni anno per venti anni, sen­za alcuna possibilità dell'Italia di uscire dall'impegno, qualunque co­sa accada. Il trattato, infatti, non prevede alcuna clausola di preavvi­so o di scioglimento.

3. Il trattato con la Libia è iniquo e disumano, specialmente mentre il mondo entra nell' era di Obama, per­ché prescrive che la forza congiirnta degli apparati militari dei due paesi si abbatta non sui "mercanti di schiavi", che organizzano le tratte dei disperati e che certo non si fan­no trovare nel deserto, ma sugli schiavi che riescono a giungere vivi ai confini del Ciad oppure che rie­scono a mettersi in mare, e che po­tranno essere “fermati" (è un eufe­mismo) molto prima che si avvicini­no alle coste italiane.

4. Il trattato con la Libia è fuori dalla Costituzione italiana, fuori dalla Convenzione di Ginevra, fuori dalla Carta dei Diritti dell'uomo, fuori dalle prescrizioni delle Nazio­ni Unite sui diritti dei rifugiati. Per esempio questo trattato rende im­possibile ogni tentativo di rispetta­re il diritto di asilo dei profughi in­tercettati.

La storia finisce qui, con l'inspie­gabile offerta del Pd di votare insie­me al Pdl un trattato che - a parte la Lega - è stato giudicato inaccettabi­le da rilevanti figure del Centrode­stra.

Alla Camera dei Deputati chi vo­ta in dissenso ha soltanto un minu­to di tempo per esprimere, in con­clusione, quel dissenso. La vice-pre­sidente Bindi, che dirigeva i lavori d'Aula in quel momento, mi ha chiu­so il microfono esattamente alla fi­ne del minuto, prima che potessi fi­nire la frase. La frase completa sa­rebbe stata questa: "Sono io - e il deputato Sarubbi, e i radicali eletti nel Pd - in dissenso con questo parti­to, o è questo partito che è in dissen­so con se stesso e con i suoi eletto­ri?".

furiocolombo@unita.it

25 gennaio 2009

Il 2009: l’annus horribilis del Cavaliere?

Curzio Maltese il Venerdì di Repubblica 9 gennaio 2009

Dall'epoca delle signorie, in Italia chi esibisce potere trova consenso. È il pedaggio storico di un Paese che ospita la principale scuola di conformismo della storia, il papato.

Questa meccanica spiega molto della storia nazionale, anche recen­te. Il problema del Pd oggi non è la que­stione morale, ma l'impotenza politica. Veltroni incarna una leadership popolare, ma debole. Nella crisi, dovrebbe imporre una linea, dall'alto del plebiscito delle pri­marie, e invece si costringe a mediare con chiunque. Non riesce a ottenere le dimis­sioni di un Bassolino o di una Iervolino, l'allontanamento di un Latorre, la rimo­zione dell'abusivo Villari, deve trattare al­l'interno e all'esterno, con D'Alema e con Di Pietro, con Berlusconi e gli antiberlu­sconiani, con la Binetti e con i radicali. Uno strazio. Eppure, non esistono alternative credibili, a cominciare dall'unica seria.

D'Alema è percepito come uomo forte da chi non lo vota, l'elettorato della destra. Nella base del centrosinistra è considerato debole, e non a torto. Nel '95 aveva l'occasione di togliere all'avversario il suo principale strumento di potere, le te­levisioni. Qualsiasi professionista della politica non avrebbe esitato. L'avesse fat­to, oggi sarebbe al Quirinale. Invece s'è in­ventato la Bicamerale, ottenendo per sé un annetto di Palazzo Chigi e per gli italia­ni altri vent'anni di berlusconismo.

AI contrario, Berlusconi oggi irradia un immagine regale. Decide tutto, coman­da tutti. Vuole essere incoronato presiden­te dal popolo. Ha schiantato la magistratu­ra, che gli italiani sostenevano quando sembrava onnipotente e non per adesione alla questione morale. Il premier appare oggi invincibile. :Ma è solo un'immagine che serve a mascherare enormi debolezze.

Il suo governo è assai mediocre e i cittadi­ni iniziano a capirlo. La sua credibilità internazionale è zero. Finita l'era Bush, Ber­lusconi è considerato dai grandi leader mondiali una specie di informatore di Pu­tin, un interiocutore fastidioso e imbaraz­zante. «Un sinistro pagliaccio» nella sinte­si del Financial Times.

Se l'opposizione ve­ra è allo sbando, quella interna alla destra cresce, Fini si smarca, Bossi impone veti. È l'ultimo l'elemento più pericoloso. Se do­mani Berlusconi sparisse, la Lega raddop­pierebbe i voti. Il Cavaliere sarebbe anco­ra in grado di superare tutte queste diffi­coltà, se non si trovasse a gestire una crisi economica epocale, per cui non trova ri­medi e neppure parole. Mi sbaglierò, ma per lui il 2009 sarà un anno orribile.

L’equivoco del PD sul significato del riformismo

Venerdì di Repubblica 27 12 2008 di Curzio Maltese

L'imminente collasso del Pd è inevi­tabile? Forse no, ma quasi di sicu­ro nessuno si muoverà per evitarlo. Il fa­talismo sembra l'ultimo «ismo» rimasto alla sinistra. La situazione è chiara da tempo. Con questo gruppo dirigente, co­me diceva anni Moretti, non si vincerà mai più. Questa almeno è la convinzione di milioni di elettori del centrosinistra, che non andranno più a votare finché non vedranno all'opera un partito nuovo nei fatti e non a parole.

La profezia di Moretti nel 2002 fu rove­sciata dal risultato elettorale del 2006, ma solo in parte. In realtà per la seconda volta un centrosinistra votato alla scon­fitta s'imbattè in quel singolare outsider vincente ch'era Romano Prodi. E per la seconda volta lo fece fuori in breve tem­po. Lasciata sola a se stessa, la nomenclatura ereditata da Pci e Dc ha finito per ri­proporre un vuoto d'idee nel quale avan­zano carrierismi spregiudicati.

L'identità riformista del Pd è rimasta sulla carta. Gli ex pci e dc ne hanno sempre avuta un'idea vaga. Per loro il riformismo non significa progettare riforme, impresa titanica in Italia, ma assumere un atteggia­mento moderato, non entrare in polemica con l'avversario, con la Chiesa e con i pote­ri forti, irridere alla questione morale e di­sprezzare ogni forma di radicalismo. È una visione un tantino macchiettistica Un po' come quando gli attori italiani, per recitare i testi anglosassoni, indossano il foulard, si yersano un whisky ed e esclamano «caspi­ta!». Oppure come quando Bertinotti e Sansonetti interpretano l'antagonismo so­ciale nei salotti televisivi, con i noti esiti.

Il calcolo della nomenclatura di centro sinistra era di trattare con Berlusconi co­me con la Dc di una volta. Con la differen­za che il berlusconismo non è la Dc, è ever­sivo e ora apertamente anticostituzionale. Senza contare che nell'ultimo mezzo se­colo il mondo è un po' cambiato.

D'altra parte non si può pretendere che i vecchi funzionari di partito, dopo aver cambiato cento sigle, mutino davve­ro il proprio codice genetico. L'unica pos­sibilità è mandarli a casa è costruire un partito nuovo. Era il progetto originario del Pd, ma ha resistito pochi mesi. Come si può convincere gli elettori d'esser ca­paci di riformare la società quando non si è in grado di riformare se stessi?

Oggi il Pd può scegliere se scaricare gli oligarchi locali da solo e da subito, o aspet­tare che lo facciano gli elettori. Si potreb­be, una volta, fare una cosa di sinistra?

Il sogno (impossibile?) di un Obama italiano

di Curzio Maltese da Venerdì di Repubblica

Potrà esserci un giorno un Obama ita­liano? Chiedono i lettori. In questi casi, la domanda vale più della risposta, ovvia: no. Sarebbe già un miracolo dare i diritti di cittadinanza ai figli di immigrati nati e cresciuti qui. Quindi aspettare con fiducia una ventina d'anni. La selezione del ceto politico italiano segue regole chiuse e difficili da scardinare.

Fin da bambino ascolto la lagna generale sul fatto che «si vedono sempre le stesse facce in Parlamento». In concreto, gli italiani si sono liberati della Prima repubb­lica soltanto per gli scandali di Tan­gentopoli. La circostanza che Andreotti, Craxi e Forlani avessero moltiplicato per otto il debito pubblico in quindici anni, catastrofe che pagheremo per tutta la viat noi e i nostri figli, non costituiva evidemente un motivo sufficiente per mandarli a casa con il voto.

Dopo è comin­ciata la stagione di Berlusconi, creatura prediletta della Prima repubblica, e non se ne vede la fine. A sinistra è successo che personaggi di seconda e terza fila ab­biano preso il posto cui erano destinati fm dalla scuola materna. Ora a destra la for­mazione della nuova classe dirigente av­viene per scelta diretta del capo, con i no­ti criteri personalissimi che hanno porta­to alle nomine dei vari Bondi e Gelmini.

La vittoria di Obama, come quella di al­tri leader di questi anni, ma in maniera an­cora più clamorosa, non è tanto la vittoria di una politica quanto quella di una storia umana. La vita di Barack Obama è un rac­como formidabile. Ed è il racconto di una comunità fondata sulla speranza e sulle opportunità per tutti. La storia personale dei personaggi politici italiani è a1trettanto significativa della comunità cui apparteniamo. Una comunità dove la mobilità sociale è azzerata e la principale risorsa di un giovane rimane la famiglia o il clan d'appartenenza. Ma, diciamo la verità una storia un po' meno entusiasmante.

In giro per l'Italia s'incontrano storie personali meravigliose e giovani di grande talento, fra i quali potrebbe esserci un Obama italiano. Ma attrav so quali canali questi talenti potrebbero essere messi al servizio della collettività? È già un'impresa che trovino un lavoro o vincano un concorso truccato da qualche barone di provincia per infilare un parente.

Però la domanda di speranza rimane più importante della risposta realistica. Chissà che, cominciando a fare i conti con i veri problemi, all'improviso il vento non cambi.

Il paese che affonda mentre il premier fa cucù

d Curzio Maltese da venerdì di Repubblica

NeI bene o nel male, le grandi crisi co­me quella che viviamo hanno il para­dossale vantaggio di mobilitare le energie migliori delle società e delle classi diligen­ti. Il '29 tanto spesso evocato avviò anche cambiamenti positivi, fecondò creazioni grandiose come il Welfare.

L'America con l'elezione di Barack Obama ha dato ancora una volta il segna­le al resto del mondo, la speranza e la ne­cessità di un cambiamento radicale nel modo di far politica rispetto al comitato d'affalÌ imperiale dei Bush. Il passo pesan­te della storia si sente anche nei vertici eu­ropei, nella solennità dei discorsi e delle scelte di Merkel, Sarkozy, Zapatero, Brown. Il nostro premier è quello che fa cucù. È quello che consiglia di correre al più vicino supermercato e vuotare gli scaf­fali, non si sa con quali soldi, così la crisi passa subito. Ricorda un verso di una can­zone di Jannacci: Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh yes.

L'Italia dovrebbe essere il Paese più pre­occupato e quindi impegnato sul fronte del cambiamento. In nessun altro Paese ricco è attesa una recessione tanto lunga e dura. I segni si avvertono girando per le città. Neppure negli anni di piombo o in quelli più bui delle ristrutturazioni industliali s'era vista tanta depressione a Torino, la città più manifatturiera d'Italia, da sempre convinta che ci sarebbe stato un «dopo» per tutto. Oggi questa fiducia nel dopo non esiste più, la Fiat manda in cassa integra­zione, ma anche lo stabilimento Motorola chiude i cancelli. Dove si troverà lavoro?

Si avverte la crisi nella serietà dell'On­da, il movimento studentesco meno ludi­co della storia dei movimenti giovanili. I sessantottini, gli indiani metropolitani del '77 tutto sommato si concedevano il lusso di una ribellione contro una società af­fluente. Questi lottano per la riconquista di una dignità del vivere quotidiano, nega­ta alle nuove generazioni.

Nella crisi soltanto i palazzi del potere restano immobili. Stesse facce, stessi di­scorsi, identiche pagliacciate. La Rai ri­schia di dover licenziare migliaia di perso­ne. Ma quelli tramano per mesi intorno a una singola poltrona e alla fine la spunta, almeno per un po', un tal Villali che sem­bra uscito dalla commedia all'italiana d'al­tri tempi. Bisogna ridere? Ridere anche delle improbabili trovate governative per risolvere con un colpo di bacchetta pro­blemi mondiali annunciate la sera stessa al talk show di turno? Una risata alla fine ci ( e non vi) seppellirà?

L’ossessione dei “rossi” dopo il crollo del Muro

L’ossessione dei “rossi” dopo il crollo del Muro

di Curzio Maltese da Venerdì di Repubblica

Non si riesce a leggere la millecinque­centesima tirata contro il comuni­smo di Ernesto Galli Della Loggia dalle colonne del Corriere senza trattenere un sorriso. Non di derisione, ci manchereb­be: di tenerezza. Con giovanile e dunque invidiabile impeto ideologico, il professo­re va a caccia di comunisti sopravvissuti e li trova nei più distanti angoli della socie­tà, fra gli studenti dell'Onda e ai cancelli delle fabbriche, fra i piloti AlitaJia e nelle scuole elementari, nel sindacato e ai ver­tici della finanza bancarottiera.

È la scena di un film, quando il vecchio John Wayne si volta verso il suo soldato: «Siamo circondati, rossi dappertutto!». Forse è un comunista anche mio figlio di sei anni, che ha partecipato a una fiacco­lata di protesta contro la Gelmini, con la mamma e le maestre (ancora due). Sarebbe divertente, se l'ossessione non fos­se diffusa fra milioni e milioni, probabil­mente la maggioranza, di italiani. In tan­ti anni di lavoro, fra le migliaia di lettere e messaggi ricevuti da lettori di destra, il numero di quelli che non si chiudevano con l'accusa definitiva di «comunista» si possono contare slùle dita di una mano. Continua a farmi effetto. Non tanto per­ché non sono mai stato comunista, a dif­ferenza di molti degli attuali servi del Ca­valiere e del suo idolo politico Putin, quanto perché non riesco a considerarlo un insulto. D'altra parte, la più bella poe­sia sul perché «qualcuno era comunista» l'ha scritta un libertario, Giorgio Gaber.

Oltre l'ossessione, c'è un problema gi­gantesco della società italiana. L'antico­munismo è stato per novant'anni l'unico vero collante della borghesia italiana, il suo alibi universale. Vent'anni fa il comunismo è morto, ma l'anticomunismo ha continua­to a vivere in un Paese solo, l'Italia, grazie a Silvio Berlusconi e perché non s'è trova­ta un'alternativa, un altro valore condiviso.

Un giorno finirà anche Berlusconi e il giorno successivo forse finirà anche il dominio degli ex comunisti sul centrosi­nistra. A quel punto che cosa può suc­cedere? Una crisi d'identità mostruosa, con due possibili sbocchi. Un nuovo pat­to civile e democratico condiviso, oppu­re l'esplosione di un conflitto anarchico fra le mille componenti dei ceti medi, un caos di difficile soluzione. «Attenti a fe­steggiare» disse il vecchio Giulio An­dreotti quando crollò il Muro di Berlino, «vi eravamo aggrappati tutti». Il pro­blema è che vi siamo aggrappati ancora oggi. A un Muro che non esiste più.

24 gennaio 2009

Fred Vargas: «Difendo Cesare Battisti, è stato lasciato solo»

di Beppe Sebaste
l'Unità 16 gennaio 2009

Quando in Francia si accorse di essere stato condannato al carcere a vita, e che tutte le colpe e gli omicidi dei Pac (Proletari armati per il comunismo) gli erano stati buttati addosso, Cesare Battisti era incredulo. Non è vero che era scappato per non essere giudicato, fu giudicato (e condannato a 12 anni di carcere per banda armata) nel 1981, e trasferito nel carcere di Frosinone, non a caso destinato a chi non fosse colpevole di crimini che avessero comportato la morte di persone. Evase dalla pena, non dal giudizio. Il processo successivo si svolse in contumacia. Battisti passò da un incubo all’altro, in una trappola senza uscita, da quella dei Pac e della lotta armata - da cui uscì e si dissociò già nel 1978 – a quella di un processo kafkiano che lo condannò all’ergastolo sulla base di testimonianze di pentiti – i capi dei Pac Pietro Mutti e Arrigo Cavallina – che addossarono a lui assente ogni colpa ed ebbero una condanna di 15 anni. Messi insieme, tutti gli elementi di dubbio fanno una montagna. E pochi ricordano che Battisti si è sempre detto innocente dei delitti di cui è stato condannato».A parlare così – accettando di camminare su un campo minato oggi in Italia - è la scrittrice Fred Vargas, i cui romanzi polizieschi, brillanti e innovativi, sono molto noti e apprezzati anche in Italia. Ma Fred Vargas è anche una ricercatrice e studiosa di archeologia e paleontologia (precisamente è archeozoologa), abituata a cercare con ostinazione verità storiche con un paziente lavoro di scavo, reperimento, concatenazione di frammenti, infine ricomposizione di un senso come un puzzle. Con questo spirito si è dedicata da anni alla ricostruzione di un’altra verità storico-giuridica su Cesare Battisti, dedicando un libro alle sue vicende processuali. A Parigi Battisti si era rifatto una vita (ha due figlie, una di tredici, l’altra di ventitrè anni) indossando il fragile abito di rifugiato politico (oggi in via di estinzione oltralpe), e diventando a sua volta autore di romanzi. Fred Vargas si è prodigata affinché, in nome della legislazione francese, fosse negata la sua estradizione in Italia. Mentre la Francia ne decideva l’estradizione, Battisti scappò in Brasile. Successivamente arrestato, il ministro della Giustizia di quel Paese, in nome dell’articolo 5 della Costituzione brasiliana, gli ha ora accordato l’asilo politico. Di fronte al coro unanime e compatto di condanna per questa decisione, la posizione garantista di Fred Vargas è assai isolata.Quali sono le sue contro-verità?«Innanzitutto confesso che mi è molto difficile parlare senza la paura di offendere la sensibilità degli Italiani. Non sono in nessun modo contro l’Italia, Paese che amo molto, e piango ogni vittima della violenza politica. Odio ogni violenza e non sono una paladina della sinistra estrema. Credo però che la decisione del ministro della Giustizia del Brasile sia onesta, giusta, coraggiosa e umana. Tiene conto dei diritti giuridici, ma anche dello stato di malattia di Battisti, attualmente distrutto. Per quanto riguarda i diritti, anzi il Diritto, molti insigni giuristi brasiliani – posso citare Dalmo Dallari e Milo Batista, oltre al senatore Edoardo Suplici – hanno sollevato, convincendosi della sua innocenza. Così come il ministro dei Diritti umani del Brasile, Paolo Vanucci. La condanna inflitta a Cesare Battisti non solo fu senza prove effettive e sulla base di testimonianze contraddittorie, oltre all’eccessivo peso dato ai pentiti; ma si svolse in contumacia, in assenza dell’imputato, che non ha quindi potuto difendersi».Come sarebbe potuto accadere?«Per renderlo regolare furono prodotti tre mandati, cioè tre lettere di incarico agli avvocati per rappresentarlo, a firma di Cesare Battisti: due con data 1982, una 1990. Qui interviene il mio mestiere di storica e di ricercatrice. Ho potuto dimostrare che si tratta di falsi, contraffazioni anche goffe della sua scrittura e della sua firma ottenute tramite il calco per trasparenza di una lettera precedente dal Messico. Si riconosce in tutte l’identico modello, e che le firme sono state eseguite nello stesso breve lasso di tempo. Risparmio i dettagli tecnici. Il fatto è che senza quelle lettere il processo non si sarebbe potuto svolgere. Di questo e di altri aspetti della vicenda processuale di Battisti ho parlato col Segretario Nazionale della Giustizia del Brasile, e anche con l’ambasciatore italiano, persona squisita. Quest’ultimo mi ha detto di essere stato turbato, come uomo, dalla mia ricostituzione dei fatti, ma che come ambasciatore non poteva che richiedere l’estradizione di Battisti. Il mio mestiere è la verità, non mi interessa difendere un’ideologia, né la sinistra estrema. Scavo la terra, dai frammenti restituisco la verità storica. Ho studiato per oltre dieci anni la propagazione della peste nel Medio Evo, un lavoro in cui non ci si può sbagliare nemmeno di un bacillo, dove occorre analizzare l’interno di una pulce. Il mio mestiere non è credere a qualcosa, ma cercare e trovare la verità. E’ quello che ho fatto anche con i pezzi di carta della vicenda Battisti».Ma lo status di rifugiato accordato a Battisti ha una motivazione soprattutto politica...«C’è indubbiamente un risvolto politico, e non perché qualcuno simpatizzi con le motivazioni politiche dei crimini che gli sono stati imputati. Cesare Battisti non fuggì la giustizia, nel 1981 fu giudicato e condannato. Ma i successivo processo rimanda alle leggi d’emergenza (o d’eccezione) che caratterizzarono quegli anni in Italia, e la memoria di quegli anni non viene affrontata in Italia col giusto sguardo (mentre il Brasile è molto sensibile al tema dell’amnistia). Rivedere, rimettere in discussione le modalità di quel processo significherebbe rimettere in discussione molti degli eventi giuridico-politici degli anni ’70 in Italia. Questo è il senso politico, o l’altro dubbio, se vogliamo, che ha caratterizzato credo la scelta del Brasile della presunzione di innocenza di Battisti».

08 gennaio 2009

La Tv e lamanipolazione del consenso

Domanda

L’uomo comunissimo, quello che guarda certi programmi in televisione,
quello del bar sotto casa che, dopo un goccio, se la prende con tutti:
prostitute, gay, stranieri, perché così dimentica la propria miseria e la
propria nullità, sarà contento se ogni tanto si partorisce qualche leggina
razzista.


Risposta

Quella che lei propone inmodo così efficace, cara Teresa,
è la questione cruciale della politica da quando è stato introdotto il
suffragio universale. Se tutti possono votare e se i governi vengono eletti
da una maggioranza di quelli che votano, il rischio è continuamente
quello di una rivoluzione perché quelli che hanno di meno sono sempre
più numerosi di quelli che hanno di più. Indispensabile per i ceti dominanti
è, in queste condizioni, una propaganda capace di imbrogliare le
carte. Mantenendo al livello più basso possibile la consapevolezza dei
cittadini e/o promettendo il Paradiso di uno Stato che provvede a tutto
senza esigere tasse) ma soprattutto suscitando odio (razzista) contro
dei nemici direttamente collegati al Male del mondo (i Komunisti, gli
ebrei, l’Islam o gli emigrati). Sta nella capacità di usare in questo modo
tutta la potenza della televisione la genialità vera di Berlusconi che è, da
questo punto di vista un potente e pericolosissimo uomo di Stato. Sta
nell’incapacità di rispondergli sul suo terreno la difficoltà vera, al momento
difficilmente superabile, della sinistra italiana.


Luigi Cancrini
L'Unità mercoledì 7 gennaio 2009