25 gennaio 2009

Il paese che affonda mentre il premier fa cucù

d Curzio Maltese da venerdì di Repubblica

NeI bene o nel male, le grandi crisi co­me quella che viviamo hanno il para­dossale vantaggio di mobilitare le energie migliori delle società e delle classi diligen­ti. Il '29 tanto spesso evocato avviò anche cambiamenti positivi, fecondò creazioni grandiose come il Welfare.

L'America con l'elezione di Barack Obama ha dato ancora una volta il segna­le al resto del mondo, la speranza e la ne­cessità di un cambiamento radicale nel modo di far politica rispetto al comitato d'affalÌ imperiale dei Bush. Il passo pesan­te della storia si sente anche nei vertici eu­ropei, nella solennità dei discorsi e delle scelte di Merkel, Sarkozy, Zapatero, Brown. Il nostro premier è quello che fa cucù. È quello che consiglia di correre al più vicino supermercato e vuotare gli scaf­fali, non si sa con quali soldi, così la crisi passa subito. Ricorda un verso di una can­zone di Jannacci: Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh yes.

L'Italia dovrebbe essere il Paese più pre­occupato e quindi impegnato sul fronte del cambiamento. In nessun altro Paese ricco è attesa una recessione tanto lunga e dura. I segni si avvertono girando per le città. Neppure negli anni di piombo o in quelli più bui delle ristrutturazioni industliali s'era vista tanta depressione a Torino, la città più manifatturiera d'Italia, da sempre convinta che ci sarebbe stato un «dopo» per tutto. Oggi questa fiducia nel dopo non esiste più, la Fiat manda in cassa integra­zione, ma anche lo stabilimento Motorola chiude i cancelli. Dove si troverà lavoro?

Si avverte la crisi nella serietà dell'On­da, il movimento studentesco meno ludi­co della storia dei movimenti giovanili. I sessantottini, gli indiani metropolitani del '77 tutto sommato si concedevano il lusso di una ribellione contro una società af­fluente. Questi lottano per la riconquista di una dignità del vivere quotidiano, nega­ta alle nuove generazioni.

Nella crisi soltanto i palazzi del potere restano immobili. Stesse facce, stessi di­scorsi, identiche pagliacciate. La Rai ri­schia di dover licenziare migliaia di perso­ne. Ma quelli tramano per mesi intorno a una singola poltrona e alla fine la spunta, almeno per un po', un tal Villali che sem­bra uscito dalla commedia all'italiana d'al­tri tempi. Bisogna ridere? Ridere anche delle improbabili trovate governative per risolvere con un colpo di bacchetta pro­blemi mondiali annunciate la sera stessa al talk show di turno? Una risata alla fine ci ( e non vi) seppellirà?

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